Dalla Marigolda
in India con Brembo

Vivere in India significa fluttuare sospesi tra due realtà. Da un lato l’India surreale, fantasiosa e per certi versi sfarzosa alla Bollywood: quella dei banchetti nuziali con tanto di pachidermi e di templi in cui piove curcuma. Poi c’è l’altra India: quella in cui, scrisse Pasolini, «la vita ha i caratteri dell’insopportabilità». Miseria, sporcizia, malattie, ma anche più semplicemente monsoni, umidità e inquinamento.

Sono queste le due «Indie» con cui l’ingegnere Luca Bottazzi, 46 anni, direttore degli stabilimenti Brembo («prima e unica azienda della mia vita», sottolinea soddisfatto) di Chakan, nel distretto di Pune, e Manesar, Delhi, fa i conti dal 2013, quando vi si trasferì con la moglie Isadora. «Agli occhi di un europeo questa è una terra affascinante, ma viverci è ben diverso dal trascorrere una vacanza di qualche settimana. Non è un luogo facile: per quanto mi riguarda, le difficoltà iniziano sin dal mattino. Avevo la fortuna di andare al lavoro a piedi: sono di Curno, zona Marigolda, insomma a un tiro di schioppo dalla sede della divisione moto, in cui sono cresciuto professionalmente. Lontano anni luce dalla realtà indiana: ora esco di casa alle 6,30 per evitare il momento di massima congestione del traffico, altrimenti rischio di impiegarci due ore e mezza per percorrere 40 km. Sono tra i pochi a spostarmi in automobile: il mezzo di trasporto più in voga è la moto, su cui siedono almeno tre persone. Quello è il nostro mercato di riferimento, considerato che ogni anno se ne vendono 13 milioni di esemplari. Ne consegue un inquinamento alle stelle: grazie al cielo risiedo a Pune, dove nonostante i 5 milioni di abitanti l’aria è resa meno pesante dal venticello che soffia quasi tutto l’anno. Nulla a che vedere con l’umidità di Delhi o Mumbai».

Una brezza che scompare durante la stagione dei monsoni. «Giugno, luglio e agosto sono ostici: può piovere ininterrottamente, ci si dimentica persino di cosa sia il sole. Inoltre i monsoni hanno conseguenze importanti sull’andamento del Paese, la cui economia è prettamente rurale: se le precipitazioni sono troppe, i raccolti non vanno bene, il contadino non vende il grano e non ha i soldi per comprarsi la moto».

«L’India è dura, soprattutto per le donne: non è ben visto che lavorino o passeggino sole. Le occidentali rischiano di annoiarsi a furia di attenersi ai divieti non scritti su cui si fonda la società. Mia moglie si è adoperata per trovare dei diversivi e creare un clima confortevole in casa: è diventata maestra di yoga e, insieme alle donne delle 55 famiglie che compongono la piccola comunità italiana di Pune, si diletta a ricreare ai fornelli i sapori tricolori, dando tregua alle nostre papille gustative, sottoposte perennemente alle spezie». Perché davanti a un piatto di pasta – anzi, di risotto – si accorciano tutte le distanze: geografiche e gerarchiche. «Tempo fa ero a Pune, a un evento Fiat ospitato dall’Ambasciata: mi trovai a scambiare due chiacchiere con Daniele Mancini, che fino al 2015 era l’ambasciatore italiano in India. Feci riferimento a una risottata al Castelmagno che avrei organizzato di lì a poco per il compleanno di Isadora: finì che aggiungemmo un posto a tavola perché si presentò anche lui, accorso per gustarsi un buon primo».

Certo, onorare la nostra cucina non è semplice: impossibile, ad esempio, mangiare una bistecca o preparare il ragù, considerato che la macellazione dei bovini è proibita, in quanto animali sacri, per cui è difficile trovare prodotti di importazione. A turno, quindi, chi torna in patria infila in valigia quel che può per condividerlo con gli altri. «C’è una cosa che mi fa sorridere: ed è che lo stesso fanno i colleghi indiani quando vanno in trasferta in Italia: si portano dietro pepe, paprika e curcuma perché dicono che il cibo del Belpaese causa loro problemi di stomaco».

Alla curcuma è legato un buffo aneddoto. «Una domenica decidemmo di visitare un tempio frequentato solo da gente del posto, al quale si accedeva attraverso una scalinata: chiunque percorresse le rampe arrivava in cima giallo, poiché veniva totalmente cosparso di curcuma, che nelle loro credenze purifica l’anima. Il dramma fu che io e mia moglie venivamo fermati di continuo con richieste di fotografie: non avevano mai visto persone bionde con gli occhi azzurri. Ci eravamo trasformati nell’attrazione!». Qualcosa di simile avvenne quando furono invitati a nozze. «I festeggiamenti durarono quattro giorni: pochi, visto che solitamente si protraggono per una settimana. In rispetto delle tradizioni, mia moglie indossò il “sari” ed io il “kurta”, ovvero gli abiti tipici. Ma essendo gli unici occidentali vestiti come i locali, finimmo col rubare la scena agli sposi! I matrimoni, qui, sono l’evento della vita: le famiglie si indebitano pur di ostentare una ricchezza che è sinonimo di potere e sono persino l’occasione per avviare sodalizi commerciali».

Ma come sono gli indiani a livello professionale? «Sentono molto la concorrenza con la Cina: è una gara costante a chi ha il PIL più alto. Ma l’essere stati a lungo una colonia li ha penalizzati sul fronte dell’autonomia. Le donne che lavorano sono poche: basti pensare che la giornata è articolata su tre turni, anche negli uffici, e solo di recente è stata abrogata la legge che obbligava le donne ad effettuare unicamente il turno centrale. Brembo India conta un 5% di donne: un dato che vorremmo aumentasse. E stiamo mettendo a punto un progetto che sproni i nostri dipendenti a prestare servizio nella Casa del Sorriso che abbiamo fondato: volontariato in cambio di soluzioni incentivanti, come ferie extra o permessi. Ci si imbatte quotidianamente nella povertà più assoluta: dalla strada si scorgono diverse “slum”, le baraccopoli».

Il futuro? «Chissà. Qui staremo un altro paio di anni: io e mia moglie stiamo usando l’India come base per conoscere tutto l’Oriente. Non so cosa abbia in serbo per noi il domani: ma non vorrei tornare definitivamente in Italia. Dopo un’esperienza di questo tipo, realizzi quanto sia arricchente scoprire il mondo».

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