Al liceo sognavo i manga
Ora a Tokyo sono grafica

A 14 anni Elena Bertocchi passava i pomeriggi alla libreria specializzata «Arcadia» di via Palazzolo, a Bergamo. A 28 anni lavora nel regno dei cartoon: il Giappone. Mentre, in classe, il professore di disegno spiegava la prospettiva, la mente di Elena Bertocchi – studentessa del liceo artistico Manzù di via Tasso – fluttuava attraverso gli oceani, atterrando a 9.600 chilometri di distanza.

Perché a lei della griglia di Dürer importava sì e no: la sua vera passione erano i manga, soprattutto una collana, «Gals», trasformatasi in un’ossessione. E così passava intere giornate a ricopiare quelle immagini, cercando di riprodurre il tratto cartoonistico, i colori vivaci e replicando nei minimi dettagli il look delle tre protagoniste, che nell’amato Giappone erano diventate icone di stile per le sue coetanee. Aveva 14 anni Elena, originaria di Astino, quando scoprì quel mondo che, come un tarlo, si infilò nelle sue fantasticherie di ragazzina: promise a se stessa che, un giorno, quel Paese lontano e affascinante l’avrebbe visitato. Non poteva certo immaginare che sarebbe stato un viaggio di sola andata: oggi ha 28 anni, vive a Tokyo dall’ottobre 2015 e lavora come grafica per una multinazionale americana.

Sono lontani i tempi in cui, per riuscire ad assaporare un po’ di Oriente, si rifugiava con le due migliori amiche nella fumetteria «Arcadia» di via don Luigi Palazzolo. «Era il nostro punto di ritrovo quotidiano; sfogliavamo i nuovi titoli e chiacchieravamo tutto il pomeriggio di manga e dintorni con il titolare. Ricordo che mi collegavo a un lentissimo, ma allora all’avanguardia modem da 56k per fare ricerca: volevo sapere tutto del Giappone, dei fumetti, di come si vestissero le ragazze, cosa mangiassero».

Sempre in quel periodo scopre la musica di David Bowie: la seconda folgorazione. «Frequentare l’artistico mi garantiva molta libertà: così finivo con lo sfoggiare dei look improbabili, un po’ manga, un po’ Ziggy Stardust. Come la cresta da punk, arancione, o i vestiti sopra i quali disegnavo gli ideogrammi che Yohji Yamamoto aveva concepito per la tunica che il Duca Bianco amava indossare nei concerti».

Il primo impatto con l’Impero di Akihito si rivela, però, deludente: alla vigilia della laurea in Scienze della comunicazione, con indirizzo studi orientali, Elena parte per un viaggio-studio di due mesi. Rimane spiazzata di fronte alla freddezza degli abitanti. «Rispondevano controvoglia in inglese. Così mi perdevo di continuo, salendo sui treni sbagliati. Per fortuna questo è il luogo più sicuro della Terra, in cui nessuno ti torcerebbe un capello».

Vivere nel Paese del Sol levante non è semplice, la giovane bergamasca lo sottolinea a più riprese. «I giapponesi sono formali a livelli assurdi: la loro gentilezza è di facciata, una sorta di imposizione sociale. Si inchinano di continuo – perché così li educano – ma non conoscono il calore umano e non sono interessati a fare amicizia. La loro priorità assoluta è il lavoro: trascorrono in ufficio almeno dieci ore al giorno, saltando spesso la pausa pranzo. Appena gli si chiede qualcosa di minimamente diverso rispetto alla regola – fosse anche solo la variazione di un ingrediente al ristorante – vanno in panico».

Tante le difficoltà, spesso agli antipodi rispetto a quelle che si incontrano in Italia. «Quando mi sono trasferita, mi dicevano che sarebbe stato impossibile ottenere un lavoro, perché non ero in possesso del Jlpt (Japanese language proficiency test, ndr),ovvero una certificazione attestante il mio livello di lingua. Invece sono stata assunta qualche ora dopo il primo colloquio. Gli scogli che ho incontrato sono stati logistici: aprire un conto corrente, mettere Internet, ma soprattutto trovare casa. Sono stata tre ore in agenzia a leggere il lunghissimo contratto di locazione, pieno di regole assurde. Ad esempio, è severamente vietato appendere qualcosa ai muri: e non dico con i chiodi, che può essere lecito, ma anche solo incollare una foto con lo scotch. Altrimenti si incorre nella penale, che corrisponde a un mese in più di affitto e al pagamento dei danni. I nipponici, poi, sono molto nazionalisti e non amano gli stranieri, cui affibbiano il termine dispregiativo “gaijin”».

«La sola volta che mi sono sentita accettata è stata una mattina, in treno: tenevo in mano la borsa del pranzo, raffigurante Totoro, un anime particolarmente in voga tra i piccoli. Accanto a me si era seduta una bambina: mi ha iniziato a parlare di cartoni animati e ci siamo messe a cantare a bassa voce alcune sigle. A un tratto ha guardato la mamma dicendole che io ero la sua “oneesan” (sorella maggiore, ndr)».

Certo, i pro sono tanti. A Elena – Laurea triennale in Scienze della comunicazione, un master al Polimoda di Firenze, un corso in grafica allo Ied di Milano, uno in serigrafia a Bergamo e un altro in disegno di moda a Londra – la vita professionale italiana aveva regalato scarse soddisfazioni. «Ricordo con gioia soltanto lo stage all’ufficio stile della linea kids di Diesel, a Marostica. Per il resto, zero stimoli o prospettive di crescita e, soprattutto, totale assenza di meritocrazia. Agli antipodi rispetto a quel che succede qua: la paga base è esattamente il doppio di quanto intascassi in Italia, senza contare che dopo tre mesi mi è arrivato un aumento».

Dell’Italia, racconta, le mancano gli affetti e il cibo. «All’inizio mangiavo sushi e ramen da mattina a sera, ma alla lunga stancano: ho iniziato a bramare pizze e cotolette alla milanese. Non riesco ad abituarmi alle scarsa varietà di frutta e verdura: loro compensano la penuria di vitamine e minerali con tisane di ogni tipo. Ultimamente, però, la mia vita è svoltata: la mamma è venuta a farmi visita e mi ha portato una moka. Mai ricevuto un dono più prezioso».

Elena si sposta per l’enorme Tokyo – «che è grande come la Lombardia» – in treno. «Sono veloci ed efficienti, quasi mai in ritardo. Il “quasi” è dato dal fatto che il Giappone ha un alto tasso di suicidi e molte persone decidono di farla finita buttandosi sotto i binari un attimo prima del passaggio dei mezzi. Perché la gente, qui, è sottoposta a pressioni immense, soprattutto sul piano sociale e familiare. È dura, ma io ho un vantaggio: il Dna bergamasco, che si traduce in tenacia e capacità di resistenza a ritmi stakanovisti. E ogni mattina, quando suona la sveglia, mi alzo con il sorriso: per la gioia di aver seguito il mio sogno e di vivere in un luogo in cui esiste la meritocrazia».

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