A Bruxelles studia
per fermare il cancro

Viene automatico citare Umberto Veronesi per sintetizzare la recente storia professionale di Bianca Colleoni, ricercatrice originaria di Città Alta, che dal 2011 risiede a Bruxelles. «L’esperienza mi ha insegnato che l’uomo, quando desidera raggiungere un traguardo, trova dentro di sé risorse impensabili» scrisse il luminare in uno dei suoi libri. Ed è andata così per questa tosta trentenne, il cui progetto di dottorato – che sarà illustrato ad aprile e anticipato da una pubblicazione nella rivista di settore «Oncogene» – ha portato a una conclusione capace di rivoluzionare uno dei cardini del sapere oncologico, trasformandosi in un tassello prezioso sul fronte della lotta ai tumori.

«Mi sono concentrata sullo studio di JNKs: si tratta di proteine che attivano CDK4, una proteina chiave per il controllo del ciclo di divisione cellulare. Superato il primo punto di controllo di questo ciclo (checkpoint) basato proprio sulla presenza di CDK4, la cellula continuerà a proliferare anche in condizioni in cui non dovrebbe, causando la crescita tumorale. Quello che ho appurato è che inibendo con sostanze specifiche le proteine JNKs si frena anche CDK4 e, di conseguenza, si stoppa l’avanzata della neoplasia» spiega euforica la scienziata bergamasca, che è stata affiancata da un’équipe di cinque colleghi coordinata da Pierre Roger dell’Iribhm, istituto di ricerca interdisciplinare in biologia umana e molecolare di Bruxelles.

«Un risultato che è merito anche di chi ha lavorato qui prima di noi ed è giunto alla serie di evidenze dalle quali siamo partiti. È una scoperta che cambia la concezione che c’era stata fino a oggi riguardo alla regolazione del principale checkpoint del ciclo cellulare, e riscrive la letteratura scientifica». Per arrivarci, la bergamasca ha trascorso gli ultimi quattro anni in laboratorio, districandosi tra i JNKS e i due frugoletti che, nel frattempo, ha messo al mondo: Jeff, 4 anni, e Arthur, 2, avuti dal marito Seppe, fiammingo.

«Ammetto che non è stato semplice incastrare tutto: tanto per cominciare, qui il congedo per maternità è di appena quindici settimane. Va però sottolineato che lo Stato sostiene le giovani coppie con prole: ogni azienda è dotata di nidi con orari flessibili, caratteristica indispensabile per chi fa i turni in una struttura ospedaliera. Mi è capitato di dover lasciare i bambini alle 6 del mattino o, al contrario, ritirarli alle 18.30. Inoltre le rette sono ponderate sul reddito, pertanto accessibili a tutte le tasche. E poi ho avuto la fortuna di poter contare sui nonni: mamma Elena e papà Ghisalberto, che vengono una volta al mese per coccolare i nipotini, così come mia sorella, Costanza. Ho anche un fratello: ma lui vive ad Atene».

Del resto la madre, insegnante di inglese, ha cresciuto i figli nel segno dell’internazionalità, spronandoli a rincorrere i loro sogni senza farsi spaventare dalle barriere, linguistiche o geografiche. «Ogni estate ci mandava in Inghilterra in college: essere stata esposta costantemente all’inglese è stata una benedizione, considerato che è l’idioma ufficiale della scienza».

Inevitabile che durante l’università – in Bicocca, triennale in Biologia, magistrale in Biologia molecolare – si iscrivesse al programma Erasmus. «Otto mesi a Gent (in francese Gandndr), capoluogo delle Fiandre Orientali, meta che mi allettava perché non ero mai stata in Belgio e, per di più, volevo toccare con mano il tanto decantato modello didattico del Nord Europa. La conclusione a cui sono arrivata è che il nostro sistema scolastico è di gran lunga superiore. Non solo per le ottime basi culturali che fornisce, ma anche grazie alle frequenti interrogazioni orali – che altrove non esistono, poiché le prove sono scritte – e il vantaggio che ne consegue è la facilità di parlare in pubblico. Per la mia professione è fondamentale: spesso sono chiamata a illustrare le mie ricerche davanti a molti colleghi».

Sebbene Bianca abiti in Belgio da ormai sei anni, la «saudade» non accenna a scomparire. Soprattutto nei momenti di difficoltà. Come il 22 marzo 2016, quando l’Isis piazzò due ordigni all’aeroporto di Bruxelles e uno nella stazione della metropolitana di Maelbeek (o Maalbeek ndr), provocando 32 morti e 250 feriti. Ed era proprio quella la linea che la biologa prendeva ogni mattina con i suoi figli: per accompagnarli all’asilo e, successivamente, entrare in laboratorio. «Quel giorno erano malati, pertanto erano rimasti a casa con la tata: io ero riuscita a partire in anticipo rispetto al solito. Ed è stata la mia salvezza, perché quando è scoppiata la bomba ero relativamente lontana. Avevo intuito che stesse accadendo qualcosa di strano: ci stavano portando al capolinea, saltando le stazioni intermedie; ai conducenti era stato impartito l’ordine di allontanarsi il più possibile dal luogo degli attacchi. Nonostante ci trovassimo sottoterra, si sentivano le sirene ed eravamo impietriti. Uno shock che mi ha spinto a cambiare immediatamente scuola ai bimbi, iscrivendoli in una struttura raggiungibile a piedi, senza bisogno di utilizzare mezzi pubblici. Ero così traumatizzata che ci ho messo un po’ prima di salire ancora in metropolitana. Anche i piccoli hanno capito, ma il loro sguardo riesce a edulcorare ogni situazione: Jeff era affascinato nel vedere tutti quei militari in giro per la città».

Chissà che un domani, con lo stesso stupore negli occhi, non possa giocare correndo tra i cannoni e i carri armati della Rocca di Città Alta. «Stare lontani da casa non è semplice: spero di poter tornare a vivere nel mio Paese. Vorrei che i miei figli potessero beneficiare del nostro prezioso sistema scolastico. A volte sbircio le posizioni lavorative aperte sull’area tra Bergamo e Milano, zona molto all’avanguardia sul fronte in cui vorrei specializzarmi: si tratta dei “clinical trials”, ovvero gli studi che si effettuano sugli esseri umani prima che un farmaco sia messo in commercio. A breve inizierò uno stage all’Eortc di Bruxelles, una clinica in cui si regolano i “clinical trials” oncologici di tutta Europa, che vanta tra i cofondatori Silvio Garattini». Forse potrebbe rivelarsi il primo passo verso un nuovo traguardo.

Essere più vicini ai bergamaschi che vivono all’estero e raccogliere le loro esperienze in giro per il mondo: è per questo che è nato il progetto «Bergamo senza confini» promosso da «L’Eco di Bergamo» in collaborazione con la Fondazione della comunità bergamasca onlus. Per chi lo desidera è possibile ricevere gratuitamente per sei mesi l’edizione digitale del giornale e raccontare la propria storia. Per aderire scrivete a: [email protected].

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