Se quei muri: inaugurazione
Inaugurazione della mostra che rappresenta la prima tappa per la valorizzazione dell’ex carcere di Sant’Agata.
Nel cuore di città alta c’è il complesso di Sant’Agata, dove si trova l’ultimo corridoio rimasto com’era al tempo del funzionamento lì del carcere di Bergamo.
Muri scrostati, polvere perenne, buchi, crepe, perforazioni, ruggine; e poi sbarre, aria e luce filtrate.
Sulle pareti impronte e ombre di un tempo passato. Stratificazioni latenti di una storia mai letta con attenzione che stava rischiando di scomparire definitivamente prima ancora di diventare coscienza della città.
La sinergia tra Comune di Bergamo, Isrec e Maite ha portato alla realizzazione di una ricerca condotta da Isrec e pubblicata nel 2020 (E. Ruffini, Se quei muri potessero parlare, Il filo di Arianna, Bergamo 2020) che è diventata poi il filo rosso della mostra Se quei muri che sarà inaugurata il 10 giugno alle ore 18.
La mostra non è l’opera di riqualificazione necessaria per salvaguardare il sito dalle ingiurie degli anni che passano, ma è l’occasione di un incontro con il luogo che abbiamo scelto di attraversare privilegiando la storia degli ultimi venti mesi della Seconda guerra mondiale.
In quel periodo infatti il carcere di Sant’Agata assume un ruolo fondamentale nella storia della città: è allora che diventa centro nevralgico della repressione nazifascista e nelle celle si intrecciano le storie di donne e uomini dichiarati per legge “di razza ebraica”, di donne e uomini in attesa di giudizio presso il Tribunale militare germanico o quello speciale, di militari tedeschi disertori, di genitori e parenti presi come ostaggi, di donne e uomini costretti a rubare dalle difficili condizioni di vita imposte dalla guerra, di condannati e condannate alla deportazione politica, di uomini in attesa della fucilazione.
Nelle storie degli uomini e delle donne prigionieri in quel periodo a Sant’Agata si radica il significato del nostro vivere insieme oggi: dalla lotta contro il progetto nazifascista per l’Europa e contro la dittatura fascista nel nostro paese nasce infatti la nostra Repubblica ed è per questo che anche Sant’Agata è uno di quei luoghi da mettere a memoria della nostra comunità.
La mostra intende sottolineare l’importanza del luogo non riempiendolo di pannelli documentari, ma obbligando i visitatori a percorre gli spazi alla ricerca di alcune preziose tracce del passato. Eccezionalmente trasferiti qui dai luoghi che di norma li conservano e restaurati per l’occasione alcuni, pochi, importanti e preziosi documenti evidenziano il bisogno di riconoscere quel corridoio nel suo valore di luogo di memoria. La fragilità del luogo, aggredito dal tempo e dall’incuria, incontra così quella di alcuni reperti della storia degli ultimi venti mesi della Seconda guerra mondiale che escono dagli archivi e costruiscono una riflessione sul significato delle parole che usiamo per dirci comunità e sulla cura necessaria per conservare e far crescere il filo tra generazioni.
La ricerca del delicato equilibro tra luogo abbandonato e oggetto conservato intende spingere visitatori e visitatrici a attraversare gli spazi con la curiosità per la conoscenza della storia che svela storie di uomini e di donne da recuperare attraverso politiche attente e capaci di quell'immaginazione necessaria per fare dei luoghi spazi di incontro tra passato, presente e futuro.
La mostra è divisa su due livelli: quello d’ingresso dove si trovano alcuni pannelli documentari che introducono alla visita delle sei celle, cuore della mostra. Qui non troviamo spiegazioni, ma parole, citazioni, documenti, oggetti, rumori, luci e ombre che occupano lo spazio come tracce che chi entra avrà il compito di far parlare. Fin dal livello d’ingresso la mostra mira a intrecciare intelligenza critica e emozione: nell’ingresso testi documentari si alternano a fotografie di Isabella Balena che fanno eco ad alcune citazioni. In ogni cella una costellazione di oggetti ruota intorno ad una parola: sei celle, sei parole (comunità, corpo, genere, l’altro, comunicare, luogo) ciascuna declinata in una coppia oppositiva (regime/democrazia, dentro/fuori, donna/uomo, puro/impuro, parole/silenzio, memoria/oblio). Lo spazio non spiega, crea nel suo dialogo con gli oggetti costellazioni di significati.
La visita può essere accompagnata da un taccuino che si può acquistare all’ingresso.
Il taccuino approfondisce la visita e le costellazioni di significato proposte in ogni cella, attraverso tre elementi: una narrazione che all’ingresso di ogni cella assume la prospettiva di un narratore bambino per riflettere sul significato delle parole scelte per dire il nostro essere comunità; una contestualizzazione che aiuta a inquadrare storicamente gli elementi presenti nella cella; il rimando ad una app per animare la cella della voce e dei volti di chi lì è stato detenuto o detenuta.
Se quei muri è una mostra di Comune di Bergamo, Isrec, e Maite, a cura di Elisabetta Ruffini, Luciana Bramati e Chiara Molinero, allestimento di Francesca Gotti, Stefano Marziali e Pietro Bailo, grafica di Dario Carta, fotografie di Isabella Balena.
La mostra è stata realizzata grazie anche al contributo di Fondazione della Comunità Bergamasca e Fondazione degli Istituti Educativi, della Signora Maria Teresa Fiocchi Pugno Vanoni, di soci e socie di Isrec e Maite.
Per informazioni sugli orari di apertura, visite libere o visite guidate, seguire i canali social di Ex-Sa, Maite, Isrec o scrivere a [email protected]
Foto di Isabella Balena, 2021