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Come far circolare le informazioni in azienda

Dossier. Introduciamoci alle competenze relazionali e trasversali, che possono far diventare un’azienda più competitiva. Ma cosa sono esattamente le soft skill? Come fare per riconoscerle e da dove si parte per metterle in pratica nella propria azienda? La nostra introduzione alle competenze relazionali e trasversali.

Lettura 13 min.

Abilità e competenze trasversali rivestono sempre più un ruolo fondante nel successo di persone e di aziende. Individuare e porre l’accento su queste abilità ha dimostrato l’importanza del loro impatto all’interno e sull’organizzazione aziendale, sempre più intesa anche in questa ottica come comunità. Studi e analisi approfondite suggeriscono che un training costante può arrivare a un rafforzamento duraturo delle performance organizzativa e dei risultati finanziari.

Ecco come verrà sviluppato questo tema e come in questo articolo si possono trovare alcune risposte.

Da dove parte questo viaggio
Che cosa sono le soft skill
Le soft skill nel mondo della complessità
Ancora Olivetti e la sua azienda comunità
Una conferma dal mondo scolastico e universitario

Un problema di riconoscimento
Far circolare le informazioni in azienda
Il caso dell’azienda Lechler
Soft skill non significa buttarsi nel vuoto
I primi cinque passi
Le quattro domande che affronteremo
Che cosa fare allora?

Da dove parte questo viaggio

Gennaio 2016, Davos, Svizzera. Il World Economic Forum (Wef) ha appena pubblicato uno dei suoi celebri e influenti report sul tema Futuro del lavoro, con riferimento a Industria 4.0 e nuove competenze richieste dal mercato. Le conclusioni sono chiare e spiazzano le aspettative: per affrontare le sfide globali della quarta rivoluzione industriale è essenziale concentrarsi primariamente sulle soft skill.

Problem solving, pensiero critico, creatività, people management. Queste sono le competenze “trasversali” posizionate ai primi quattro posti nei risultati dell’indagine che il Wef ha condotto in venti nazioni, coinvolgendo 13mila tra imprenditori, esperti di risorse umane, consulenti.


Il motivo principale è che le soft skill sono finalmente considerate necessarie a capire e affrontare i cambiamenti dei mercati, specialmente di quei settori che si muovono più velocemente di altri.

Ma quali settori non lo fanno, del resto? Dietro le soft skill ci sono però molti malintesi, pochi approfondimenti e molte contraddizioni. Tutti ne parlano, tutti ne riconoscono l’importanza, pochi sanno come maneggiarle, anche negli ambienti canonicamente dedicati all’acquisizione di conoscenze e competenze.

 

Maggio 2018, Bergamo. Durante i primi passi dell’esperienza della comunità di SKILLE, abbiamo chiesto ad aziende del nostro territorio di suggerire una scala di preferenza tra alcune possibili tematiche di approfondimento.

Le soft skill sono risultate il contenuto più richiesto, non a caso. Da qui parte il nostro viaggio: dalla vostra richiesta di definire meglio cosa sono, come si riconoscono o perfezionano, a quali problemi aziendali rispondono le soft skill.

Cosa sono le soft skill

C’è un problema di partenza. Quando si parla di soft skill, lo si fa definendole soprattutto in negativo, come altra faccia della medaglia delle competenze che meglio conosciamo. Le soft skill sono cioè definite in relazione alle cosiddette hard skill, le competenze tecniche, verticali, specifiche: quelle, per intenderci, che hanno un corso universitario dedicato o per cui è previsto un mansionario nelle aziende.

Le soft skill, così inquadrate, coprono uno spazio indefinito: non esistono di per sé ma solo per distinzione dalle hard skill e restano vaghe, non solo nella definizione, ma anche nella tipologia di problemi che si ritiene possano risolvere.

Il primo motivo di questa difficoltà è che non c’è, neanche in sede istituzionale, un sostanziale accordo su quali siano le competenze “morbide” o “trasversali”. Tra le altre, esiste una tassonomia di matrice europea, secondo cui esistono:

- skill personali, come il saper reagire a situazioni di stress
- skill relazionali, per quanto riguarda l’attenzione al cliente o ai colleghi
- skill argomentative, che determinano la capacità di influenzare l’altro
- skill orientate al risultato, problem solving e prima ancora problem setting
- skill cognitive, come la capacità di analisi

Riassumendo, le soft skill possono essere catalogate in due insiemi di competenze:
- Il primo è relativo all’interno delle dinamiche aziendali: il rapporto con i colleghi ma anche il sapersi prendere un compito o una leadership.
- Il secondo è relativo all’esterno, cioè ai partner e alla filiera, ma soprattutto al mercato, ossia alla capacità di leggere i bisogni dei propri clienti.

Un buon modo di definire le competenze morbide per affermazione, non per negazione, è senz’altro quello che le considera un saper essere, quando invece le hard skill sono un saper fare.

Saper essere in relazione alla gestione del proprio ruolo in azienda, in rapporto con sé, con i colleghi e con i clienti.

Un altro utile punto di vista per mettere a fuoco le soft skill deriva da una metafora biologica, citata in una pubblicazione a esse dedicata. Pensiamo alla struttura del DNA, con i due nastri che compongono la doppia elica e i legami che li uniscono.

Segui questo video intervento di Marina Pezzoli

Un nastro, secondo la metafora, sarebbe costituito dalle competenze industriali, mentre l’altro dalle competenze digitali di un’azienda; i legami, i connettori che tengono uniti i due nastri, sarebbero invece proprio quelle competenze trasversali e relazionali che permettono di trasmettere conoscenza e fare da collante tra saperi e figure diverse dentro l’organizzazione.

 

Le soft skill nel mondo della complessità

Edgar Morin

La sua biografia

Questa visione deriva indirettamente dalle riflessioni che Edgar Morin faceva a fine anni Novanta nel suo celebre libro La testa ben fatta, in cui il decano francese della teoria della complessità sosteneva che, data la rapidità crescente con cui le competenze verticali o dure invecchiano, fosse necessario ripartire dalle competenze morbide per riformare le nostre scuole.

Se, come diceva Morin, lo sviluppo delle competenze tecniche ha permesso un grande progresso, ma ha anche comportato la separazione dei saperi, il futuro sviluppo delle competenze morbide permetterà di mettere in connessione e integrare i saperi, a scuola come in azienda.

Le soft skill non sono dunque il contrario delle hard skill ma sono competenze di integrazione

Ascolta la Lectio magistralis di Edgar Morin dal titolo: L’umanesimo planetario

Ancora Olivetti e la sua azienda comunità

Come faccio a mantenere un buon clima aziendale? Come faccio a reagire o ad anticipare i mercati? Queste sono due delle domande più urgenti la cui risposta chiama in causa le soft skill. Un illustre precedente che i lettori di Skille sono già abituati a ricordare è ancora Adriano Olivetti. Una delle chiavi principali per leggere l’innovatività con cui l’azienda di Ivrea aveva interpretato la trasformazione della società va sotto il nome di “cultura aziendale”:

Non una bandiera sotto cui trincerarsi, ma un set di strumenti di cui fare uso per fare ricerca e sviluppo continui. Quella di Olivetti era una cultura aziendale che metteva in equilibrio le competenze tecniche e quelle umanistiche.

In particolare, nel Centro di formazione meccanici (aperto nel 1935), Adriano Olivetti introduce insegnamenti creativi oltre che tecnici. Sempre in Olivetti viene istituito il principio delle terne, “secondo cui per ogni nuovo assunto in campo “tecnico” devono venire assunti anche un dipendente con formazione economico-legale ed uno proveniente da studi umanistici”. Un approccio pionieristico di integrazione tra competenze diverse. Un primo caso celebre di soft skill “diffuse” in azienda.


Una conferma dal mondo scolastico e universitario

L’immagine del DNA e l’integrazione di competenze in azienda promosse da Olivetti richiamano una metafora esposta da Giuseppe Gembillo, professore di Storia della Filosofia dell’Università di Messina. Le competenze morbide sono essenziali proprio a gestire quelle dure.

Le competenze morbide sono quel saper essere che ha il direttore d’orchestra nei confronti dei solisti che deve coordinare. Il problema della nostra Scuola secondaria superiore, secondo Gembillo, è l’inversione per la quale i solisti sono i professori, mentre lo studente si trova a fare il direttore d’orchestra.

Questo aspetto è ancora più cruciale quando si parla di formazione universitaria. Secondo Elisabetta Marafioti, direttore di MADIM-Master in management e digital transformation Università degli Studi di Milano-Bicocca, «per gestire l’innovazione efficacemente si deve avere una grande capacità di generare e implementare il cambiamento. Cambiare un’azienda significa soprattutto gestire persone, cambiare la loro cultura, superare l’inerzia che naturalmente ci spinge ad allontanarci con difficoltà dallo status quo.

Per questo imparare a gestire i team, sviluppare competenze di leadership e di gestione delle relazioni interpersonali, ma anche capire come guidare i processi di turnaround, è sempre più importante.

Questo è un riscontro che riceviamo sempre più dalle aziende che ci chiedono di dare ai nostri studenti competenze specifiche legate al mondo digital e social, ma poi li valutano soprattutto per la loro capacità di relazionarsi, la loro empatia e atteggiamento proattivo in azienda».


Un problema di riconoscimento

Una ricerca del centro di formazione Niuko, nel libro già citato sulle soft skill, ci presenta un’indagine svolta nell’universo aziendale del Nord-est. Il primo dato interessante, in linea con l’inizio di questo articolo (il report del WEF su Industria 4.0 e soft skill), ci consegna un’opinione comune e trasversale ai settori: “Per quanto riguarda il futuro, la nostra ricerca evidenzia che orientarsi al cliente, teamworking, flessibilità e creatività saranno, nel 2020, le competenze più importanti”.

La contraddizione in essere è che però i responsabili delle risorse umane delle aziende non hanno strumenti e indicatori per misurare le soft skill e renderle davvero riconosciute e riconoscibili in azienda, da un lato, e comprensibili nella valutazione di nuove risorse.

In un’indagine del Placement dell’Università Ca’ Foscari di Venezia del 2017, che aveva l’obiettivo di indirizzare gli studenti all’utilizzo di strategie adeguate per l’inserimento nel mercato del lavoro e fornire alle aziende studenti preparati e in grado di sfruttare al meglio le loro potenzialità, le soft skill sono considerate centrali. I selezionatori di 90 aziende (piccole e medie imprese del territorio, Pmi, e gruppi internazionali) vengono coinvolti per sondare quanto le competenze trasversali incidano nella scelta di un candidato. Il 62% delle aziende coinvolte sostiene che nel processo di selezione le competenze trasversali sono molto importanti; il 69% dichiara che nei curriculum vitae sono espresse in maniera poco adeguata, per il 50% dei recruiter è consigliabile inserirle in una sezione dedicata del Cv; per il 30% è importante che le competenze trasversali maturate vengano descritte agganciandole all’esperienza professionale o personale in cui si sono potute manifestare. Per il 61% delle aziende durante il colloquio è importante far emergere le competenze attraverso il racconto di esperienze vissute.

 

Introduciamoci alle competenze relazionali e trasversali, che possono far diventare un’azienda più competitiva. Ma cosa sono esattamente le soft skill? Come fare per riconoscerle e da dove si parte per metterle in pratica nella propria azienda?

Far circolare le informazioni in azienda

Come iniziare a sviluppare soft skill in azienda? Vogliamo qui introdurre ai primi passi da compiere, ossia alle prime cose da fare, per poi passare, nei prossimi capitoli di questa Guida di SKILLE, ai principali quattro problemi che le soft skill possono aiutare a risolvere.
La prima cosa da fare per mantenere efficiente il DNA di integrazione delle competenze è far circolare maggiormente le informazioni in azienda. Una delle principali problematiche che ci sottopongono i mercati odierni è l’impossibilità di ragionare per settori stagni.
Allo stesso tempo, anche i rami d’azienda devono iniziare a parlarsi di più.

Il caso dell’azienda Lechler

«Siamo una piccola azienda di vernici». Aram Manoukian, amministratore delegato e presidente della Lechler (550 dipendenti) porge questo biglietto da visita, confrontandosi con i colossi che operano nel settore. La società nasce nel 1858, con Christian Lechler, in Germania, ma la filiale italiana prende il via nel 1889 a Ponte Chiasso e undici anni dopo diventerà indipendente. Sarà un’ascesa costante, dal sito centrale di Como a quelli di Foligno, Seregno e Paraì, quest’ultimo in Brasile.
Qui può capitare di vedere l’amministratore delegato che arriva e si siede in ultima fila: è il momento della riunione del tavolo di lavoro, quella che traccia le prossime strategie. Aram Manoukian assiste, ascolta, lascia che gli altri si confrontino e che lo spirito critico porti a prendere la decisione più appropriata. Sembra un’immagine suggestiva, ma dietro c’è molto lavoro. E vantaggi precisi.

Serve un punto fermo. Una visione chiara, una missione. Un progetto di azienda che coinvolga le persone. Solo così puoi “liberarle”. Tutti offrono le proprie idee, ma poi devono essere protagonisti nello sviluppo a venire. In assenza di questo, sconsiglio di fare come noi.

Capiamo prima di tutto qual è stata la molla per la riorganizzazione dell’azienda di vernici.
Tra il 2004 e il 2005 escono alcuni soci e bisogna rinunciare a un ramo d’azienda. Ciò diventa un’occasione per ripensare al modello.
Prima, l’attività era suddivisa in business unit, ora si decide di impostare una divisione in gruppi di lavoro. Un cammino che l’amministratore delegato e il direttore del marketing, Luciano Valli, hanno affrontato insieme. Dietro questa scelta insomma ci sono una visione, una mission aziendale.

Il limite della precedente organizzazione era la circolazione verticale delle conoscenze: non c’era per così dire scambio tra aree (sono cinque: refinish, industria, decorative, nautica, habitat). Mentre le esigenze moderne sono di una distribuzione orizzontale, più funzionale. «Era il momento giusto - osservano - per farci forza e coraggio. Per lavorare uniti. Di qui l’idea dei tavoli di lavoro».

 

Ciascuno viene coinvolto nel processo decisionale. Ciascuno è responsabile. Come funziona?
Ci sono diversi livelli. Prima, un’area meeting più generale, che unisce tutte le attività dell’azienda per una singola funzione, dal marketing alla logistica. Poi si declinano tavoli di lavoro specifici su progetti e obiettivi, riunendo le diverse funzioni. Ad esempio, chi si occupa delle previsioni di andamento del mercato si trova a confronto con la produzione, ancora quest’ultima dialoga con la sicurezza; il controllo qualità con l’amministrazione. Incontri che vengono messi in agenda all’inizio dell’anno e si svolgono in genere una volta al mese.

Un requisito è naturalmente la perfetta organizzazione di quest’agenda. Varia anche la presenza: ci sono i direttori, ai quali possono affiancarsi i primi o secondi livelli. Si va, a seconda delle necessità, dalle dieci alle quindici persone.

C’è un report che viene poi diffuso: la trasparenza è una carta ritenuta fondamentale nella riorganizzazione con più spazio alle soft skill.

Abbiamo già parlato, sempre su SKILLE, e a proposito di management e digitalizzazione, del tavolo delle competenze. In Lechler avviene una cosa simile. Ognuno porta il suo spartito - è l’immagine usata dallo stesso, Manoukian, coerente con quella di Gembillo -, ma deve uscire un’armonia complessiva. E qui - rimarca ancora - le hard skill sono importanti, tuttavia sono le soft skill a fare la differenza. Se chi si occupa dei mercati, non sa niente dei problemi di chi produce, la macchina è meno efficiente e non viene attivato il pensiero critico.


Soft skill non significa buttarsi nel vuoto

Servono persone che pongano il problema e traccino una ipotesi di soluzione, Luciano Valli lo rimarca: lo spirito critico è ritenuto preziosissimo. Senza alcun timore o ritrosia. Durante le riunioni dei team di lavoro c’è una cosa che preme più di tutte al direttore del marketing: sapere perché si è andati bene, ancora di più di quando si sono riscontrati dei problemi. «Quando conseguiamo un ottimo risultato e non capisco perché, mi preoccupo - specifica -. Se qualcosa di positivo ci sfugge, non lo stiamo sfruttando al massimo, lo cogliamo inconsapevolmente».

Ecco una parola chiave: la consapevolezza, che alla Lechler deve appartenere a tutti i livelli. Così in gruppi più piccoli si stabiliscono le priorità, poi si coinvolgono gli altri. Ognuno può rivelare il proprio talento, in una situazione, in una decisione, e spingere a fare altrettanto.

Per noi la priorità è elaborare ragionamenti, farci delle domande. ma Ho l’ossessione di andare avanti, da solo non posso.

I primi cinque passi

Dopo quanto tempo si colgono gli effetti di questa riorganizzazione? «Li ho visti dopo qualche anno - dice Manoukian - anche se in realtà i primi dopo qualche mese». L’introduzione di un’attenzione alle soft skill non può avvenire all’improvviso, ma deve essere un percorso graduale.

Vediamo come:

1- Il primo passo, come abbiamo visto, è far circolare maggiormente le informazioni in azienda e strutturare un’organizzazione del lavoro basata sullo scambio e non sull’isolamento dei comparti produttivi.
2 - Eppure, la circolazione dei saperi non può nulla se non si crea un percorso strutturato di allineamento sulla visione e sulle strategie dell’azienda, come abbiamo visto per Lechler e come vedremo spesso a proposito di soft skill. Condividere uno sguardo sul futuro è il miglior modo per arrivarci insieme, a prescindere dal lavoro quotidiano.
3 - Serve un’introduzione e poi una pratica costante delle metodologie di lavoro in gruppo e di lean thinking (la cosiddetta produzione snella, che mira a ottimizzare e a evitare sprechi) e la creazione di strumenti di osservazione delle dinamiche aziendali e di relazione con il cliente.
4 -Capacity building: dopo essersi allineati sulla visione e sulla conduzione di un gruppo di lavoro, bisogna usare strumenti per fare emergere talenti e attitudini inesplorate delle persone coinvolte.
5 - Servono strumenti di progettazione e di design thinking per dettagliare le scoperte fatte e tradurle in processi aziendali (sempre a proposito di tavolo delle competenze).

Parallelamente, è fortemente consigliabile creare programmi di formazione continua a supporto.

 

Le quattro domande che affronteremo

Dopo aver presentato i primi passi trasversali all’ampio raggio di problemi (ma soprattutto di opportunità!) che le soft skill aiutano ad affrontare, vediamo quali sono le domande principali che ci guideranno nei prossimi capitoli di questa Guida dedicata alle competenze trasversali.

1- Come affrontare i nuovi mercati con una nuova organizzazione aziendale?
Questa domanda risponde all’esigenza di creare gruppi di lavoro intersettoriali capaci di innovare la propria offerta sul mercato - e, in generale, di rendere la propria azienda più flessibile alle richieste del mercato. Faremo un approfondimento su tecniche e strumenti ma anche approcci organizzativi nuovi, basati su leadership distribuita e un orizzonte “bossless” (senza gerarchie immobili) nei processi decisionali.

2 - Come creare nuove collaborazioni e fare innovazione aperta?
L’innovazione aperta (open innovation) è un percorso dove l’azienda non è più da sola. Per fare innovazione aperta servono strumenti relazionali per gestire nuovi assetti delle filiere, sviluppare reti, specialmente per entrare in contatto con startup e altri soggetti che per natura leggono con più flessibilità il cambiamento dei mercati.

3 - Come migliorare il clima aziendale?
Questo è il capitolo più tradizionalmente associato alle soft skill. Eppure, anche qui, spesso si guarda il particolare: come allestire una zona relax in azienda, una sala mensa, uffici aperti. E poi il team building, la gestione dei conflitti, il passaggio generazionale. Affronteremo la questione con uno sguardo di sistema, che parte dall’allineamento sui valori dell’azienda e arriva agli strumenti per aumentare il livello di benessere percepito.

4 - Come attrarre talenti? Come valutare le nuove risorse da inserire?
Per rendere l’azienda più flessibile, attenta al benessere e alle richieste dei dipendenti, è necessario l’uso di strumenti e di una pratica costante di capacity building, ossia di aumento delle capacità delle risorse umane basato sul mutuo riconoscimento dei talenti ancora inespressi. Ciò consente (neanche troppo) inaspettatamente di riconoscere i pieni e i vuoti nelle risorse umane e quindi di sapere cosa cercare, quale talento attrarre.

Del resto, nelle soft skill come in tutte le dinamiche di progettazione e gestione di un’azienda, ciò che conta davvero è sapersi porre le domande giuste.

Cosa fare allora?

Sapere porsi le domande giuste, dicevamo poco sopra. Crediamo sia il primo passo, decisivo sia per le aziende sia per i lavoratori, per dimostrare di essere appassionati, convinti delle proprie idee e rendere il proprio entusiasmo contagioso. La formazione deve essere un percorso costantemente alimentato, lo abbiamo ribadito anche in questo articolo. È un investimento che mette sempre la persona al centro dell’azienda e aiuta a costruire relazioni dentro la comunità-impresa.
Proseguiremo su questa strada con approfondimenti anche nei prossimi articoli, che saranno dedicati in modo particolare alla leadership (terzo capitolo) e alla valorizzazione dei talenti (quarto capitolo).

Checklist

Immagina un percorso di verifica dentro la tua azienda per iniziare a identificare i passi che ti abbiamo indicato in questo articolo. Parti da queste regole:

  1. quanti momenti di scambio tra aree e tra livelli ci sono nella tua azienda?

  2. quanti documenti strategici produci in azienda? ogni quanto li aggiorni? quanto diffondi questi documenti dentro la struttura organizzativa?

  3. quanto circolano i ruoli nella tua azienda? hai mai sviluppato progetti di job rotation?

  4. come definisci le sfide del futuro per la tua azienda? quanto coinvolgi i diversi livelli dell’organizzazione?

  5. esistono figure di facilitazione di lavoro di gruppo e di mediazione interne all’azienda?

  6. hai mai chiesto a collaboratori e dipendenti quali talenti vorrebbero esprimere maggiormente in azienda?

  7. hai mai sviluppato progetti volti al benessere dell’ambiente lavorativo?

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