Egemonia culturale, la domanda sbagliata

ITALIA. I conti che i partiti fanno sul risultato elettorale sono sempre viziati dal bisogno di tenere alto il morale delle truppe.

Altro fattore condizionante è che in generale essi si attengono ad una valutazione di breve respiro. Si soffermano ad indagare la lista dei candidati, le alleanze strette o mancate, l’impostazione della loro comunicazione elettorale, la capacità di richiamo del loro leader. Poca o nessuna attenzione riservano per lo più ai fattori di più lungo periodo, che in qualche caso possono anche esser risultati determinanti nell’orientare gli elettori. In occasione del recente voto amministrativo, a dire il vero, s’è tentato di allungare la vista: la sinistra ha individuato come una delle ragioni del mancato decollo, dopo il cambio di segreteria, il franamento in corso della (presunta) sua egemonia culturale. Anche in questo caso però non si è andati oltre un discorso di potere.

Ci si è limitati a interrogarsi su quali fondamenta poggi questa supremazia culturale della sinistra. Quanto sia frutto del merito e quanto invece solo di una prosaica conquista dei centri di produzione culturale: dalla stampa alla televisione, dall’università alle case editrici. Prima di proporsi interpreti della costruzione di un’egemonia culturale, sarebbe forse meglio chiedersi quale cultura possa conquistare un’egemonia. Per aspirare a tanto, una cultura politica deve assicurarsi di avere due caratteristiche: primo scaldare i cuori e poi anche incitare alla lotta, suscitare un entusiasmo ma anche mordere la realtà, agganciando solidamente le forze interessate al cambiamento.

Così almeno è stato in passato. Il liberalismo ha saputo offrire alla borghesia un’eccitante prospettiva di libertà attuando al contempo un’immediata, profittevole società di mercato. Il socialismo ha spalancato alle masse un orizzonte di emancipazione, ma ha garantito anche una guida per migliorare la loro condizione economica. Lo stesso nazionalismo ha conquistato le masse facendo loro balenare un futuro di potenza, ma s’è attivato anche per realizzare una loro integrazione protettiva nello Stato autoritario: dai servizi sociali alla scuola, dalle attività sportive alle organizzazioni di partito.

Qual è oggi lo stato dell’arte della destra e della sinistra in tema di cultura politica? Non certo brillante. Sono entrambe orfane (nostalgiche) delle loro culture tradizionali, messe fuori gioco dalla nuova «società liquida» (una società dalle strutture volatile dalle classi fluide) eppure non sono ancora riuscite, in parte non si sono nemmeno impegnate a dotarsi di una cultura che possa ambire a conquistare un’egemonia. Il Pd di Elly Schlein ha deciso di scommettere sulla «cultura dei diritti». Si propone con ciò di offrire un’esaltante prospettiva di riscatto delle minoranze dai ceppi della discriminazione. Non sembra però in grado di agganciare la domanda di protezione di una società in affanno per lo stress della globalizzazione.

A sua volta, la destra della Meloni sta dimostrando di sapersi sintonizzare con il mood (stato d’animo) del cittadino, ma naviga a vista sull’offerta di una cultura adeguata alle sfide del nuovo millennio. Il nuovo corso inaugurato dalla Elly torna a riscaldare i cuori della sinistra post-moderna, ma fatica a parlare alla sinistra popolare.

Il conservatorismo di Giorgia Meloni si limita per il momento a funzionare da slogan utile ad agganciare un elettorato che non ha mai votato per la destra, ma è troppo inconsistente. Non ha un’anima e nemmeno le gambe con cui camminare.

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