Cultura in polvere per società liquide

ITALIA. C’è qualcosa di perverso nella nostra società, che «striscia» senza far rumore e misteriosamente modifica il corso di alcune cose la cui strada sembrerebbe già tracciata verso una meta certa, garantita.

Eppure accade che il risultato atteso sia diverso dalla somma degli addendi, che la logica conseguenza di un percorso non arrivi al traguardo che ci si aspetti. Alcuni anni fa, rispondendo a chi gli aveva chiesto se nonostante tutte le barbarie viste in giro per il mondo fosse ancora ottimista, l’Ambasciatore Onu Staffan de Mistura disse che lo era, e il perché della sua convinzione era davanti ai suoi occhi: «Siete voi, che non ve ne rendete conto, ma io sì, avendo visto quanto cinismo anima il pianeta. Ed è proprio il cinismo la vera malattia che ha colpito tutti noi. Vedere un così grande numero di persone coinvolte, mi dà speranza. Vuol dire che dietro questo cinismo c’è ancora molta volontà di contribuire da parte di tutti a modificare quel che appare non modificabile». Da quella sera sono passati alcuni anni, e il successo di pubblico di iniziative come quella o di molte altre fra quelle contenute nel vasto programma di Bergamo Brescia capitale della cultura 2023, non è venuto meno, anzi, ha via via fatto registrare numeri sempre più significativi. Eppure - e una cartina di tornasole l’abbiamo proprio in queste settimane di «caccia» ai candidati per le elezioni comunali di giugno - questa «voglia di cambiare», questo desiderio di partecipare a un percorso di rinnovamento delle istituzioni a noi più vicine, non sembra essere così tangibile, dato che i segretari di «civiche» e partiti sono costretti a mendicare quasi porta a porta l’adesione ad una lista.

Che tra l’offerta culturale del nostro Paese e le proposte messe sul tappeto dalla politica ci sia una distanza a tratti incolmabile è sotto gli occhi di tutti. Che la politica italiana sia l’arte (pessima) di sostenere tutto e il contrario di tutto appare evidente anche agli occhi dei più sprovveduti. È sufficiente ascoltare un telegiornale qualsiasi per rendersene conto: sullo stesso tema - dentro e fuori la maggioranza di governo, qualsiasi essa sia - c’è un numero quasi infinito di posizioni diverse, spesso diametralmente opposte, intrise solo di faziosità e sterili polemiche da cui è impossibile trarre un’indicazione utile per capire. Unica cosa certa, la mancanza di buon senso e di volontà di aiutare chi ascolta a farsi un’idea seria di ciò che gli accade attorno.

Ma è davvero solo colpa della politica? Perché, se serate di alto livello culturale registrano una grandissima adesione di pubblico, le «buone pratiche» per rendere la nostra società migliore che lì vengono spiegate sono poi tradotte nella vita di tutti giorni soltanto da un manipolo sempre più esiguo di persone? Che qualcosa non torni lo si è già visto dopo il Covid, quando anche il mondo del volontariato (qui come altrove) ha cominciato a registrare una flessione. Forse quel cinismo di cui parlava De Mistura si è silenziosamente diffuso sempre di più, insinuandosi nel comportamento di molti che dopo aver superato il panico da epidemia hanno rapidamente ripiegato su sé stessi la spinta solidaristica che aveva caratterizzato i mesi più duri della pandemia. Una sorta di «primavera delle coscienze» sfiorita troppo presto, rendendo così ancor più amaro il percorso per uscire dal tunnel del Covid. Certo, se guardiamo i dati economici - produttività, investimenti, posti di lavoro - non siamo stati secondi a nessuno, ma solidarietà e condivisione hanno preso un percorso diverso, tracciando un solco ancora più profondo tra il «prima» e il «dopo», privandoci pesantemente della serenità necessaria per vivere in un mondo diventato ogni giorno sempre più difficile.

Sembrerebbe dunque che in un mondo in cui si è sempre - e sempre più - insoddisfatti, anche la cultura sia finita nel «tritacarne» del consumismo post moderno, diventando anch’essa «mercificabile», da consumarsi in fretta e da archiviare ancor più velocemente. Se così fosse, dove sono finite la voglia di migliorare e di migliorarsi, la tensione di elevare noi stessi e la società in cui siamo immersi? Forse la risposta più coerente è contenuta tra le riflessioni del grande sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman, a cui si deve la folgorante definizione della «modernità liquida». Ed è proprio «nella modernità liquida» - dice Bauman - che la cultura non ha più «un volgo da illuminare ed elevare, ma clienti da sedurre». Anche la cultura, dunque, appare sempre più somigliante a quei lunghi scaffali dei grandi magazzini che si riempiono e si svuotano in base alle pubblicità del momento, che a loro volta nascono e muoiono nello spazio di un battito di ciglia. La cultura non più come strumento di crescita personale e collettiva, ma un enorme mercato dove comprare qualsiasi sollecitazione culturale, metabolizzandole tutte e subito per non metabolizzarne nessuna.

Più che possedere una cultura, ci limitiamo a «consumarne» molta, ma senza alimentare il nostro spirito. Snobismo culturale a rovescio. Il progresso - sostiene ancora Bauman, ed ha ragione - «si è spostato da un discorso di miglioramento di vita condiviso a un discorso di sopravvivenza personale».

E i rischi che ne derivano sono altissimi, anche se non sembrano essere sotto gli occhi di tutti. «La ricerca di un’umanità comune e gli sforzi che essa richiede - avverte il sociologo polacco - non sono mai stati tanto necessari come nella nostra epoca». Ma con il netto prevalere dell’indifferenza più totale verso il prossimo, tipica della nostra società, il pericolo è «che le diverse comunità rimangano fisicamente vicine, ma spiritualmente remote». Un pericolo non da poco, perché in questa condizione sembra difficile, se non impossibile, dar vita ad una visione della promozione sociale capace di costruire una umanità migliore. Proprio perché manca una serie politica della cultura - quella che antepone il «Noi solidaristico» alle derive dell’«Io narcisistico», frutto del tecno-mercato dei consumi -, c’è bisogno di una cultura della politica, quella che nelle buone pratiche (antropologiche e sociali in primis) assegna al bene comune (che sia il nostro piccolo Comune piuttosto che la Grande Europa) il primato fondativo del nostro vivere insieme. La sfida è sul tappeto, sta a ciascuno di noi raccoglierla. E, possibilmente, vincerla.

© RIPRODUZIONE RISERVATA