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La bicicletta e i cosacchi: quando Buffalo Bill venne a Bergamo con il suo circo

Racconto. Nel 1894 sfidò a cavallo una bicicletta e ottenne la vittoria. Nel 1906 portò indiani, cosacchi del Caucaso, samurai giapponesi, arabi, cow-boy, messicani, cinesi ma non convinse il pubblico. Storia di uomo che con le sue gesta alimentò l’immaginario western più classico. Lo stesso che ritroveremo alla Fiera di Sant’Alessandro

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Buffalo Bill (foto Sarony, circa 1880, Creative Commons)

Certe storie si perdono nella notte dei tempi, anche se questa famigerata “notte dei tempi” risale solo a centovent’anni fa circa. Cioè a quelle due volte (1894, 1906) in cui Buffalo Bill venne a Bergamo. Di Buffalo Bill sappiamo tante cose: eroe, mito, leggenda, quintessenza di quel classico immaginario western della frontiera dove i cow-boy bianchi sono i buoni e gli indiani pellerossa i cattivi. Ma di Buffalo Bill a Bergamo sappiamo poco. O meglio conosciamo date, fatti e cronache dai giornali dell’epoca – L’Eco di Bergamo in primis – e dalle ricostruzioni fatte negli ultimi decenni sempre sul nostro giornale, a volte fra loro contraddittorie. Contraddizioni, che sì, nascono da inesattezze, non volute però, ma scaturite da quello strano miscuglio fra realtà, memoria e leggenda che rende i fatti non veri, ma verosimili e soprattutto affascinanti.

Buffalo Bill per la sensibilità di oggi è un personaggio controverso, uno che partecipò ad uno sterminio (quello dei nativi americani) ma senza la convinzione, ad esempio, di George Armstrong Custer, che venne ucciso il 25 giugno 1876 insieme a due suoi fratelli e tutti gli uomini del 7º cavalleria appartenenti alla colonna da lui capeggiata. La battaglia era quella “mitica” del Little Big Horn, combattuta contro una coalizione di tribù native, nota nella storia statunitense come Custer’s Last Stand (“L’ultima resistenza di Custer”).

Prima di inoltrarci nelle storie di Buffalo Bill a Bergamo è necessario spiegare come mai William Frederick Cody, questo il suo vero nome, divenne Buffalo Bill. Cominciamo a dire che Cody era diventato famoso oltreoceano per aver fatto lo scalpo – in soldoni: ucciso con un colpo di Winchester, finito a coltellate e scotennato – a Mano Gialla dei Cheyenne, durante le campagne condotte fra il 1867 e il 1876 contro diverse tribù indiane (Sioux e Cheyenne principalmente), mentre il suo ruolo nella Guerra di secessione fu più marginale. L’azione vendicò Custer e Cody in quelle battaglie, come spesso succede in queste situazioni, aveva semplicemente eseguito gli ordini, così bene da beccarsi un titolo onorario conferitogli dal governatore del Nebraska per i suoi meriti.

Nonostante ciò Bill rimaneva un convinto anti-schiavista (il padre per queste idee ci lasciò la pelle) e – come racconta lo scrittore e saggista Domenico Rizzi in un’intervista a L’Eco del 2017 per il centenario della morte – era “un uomo cordiale, disponibile e affabile, a volte eccessivamente aperto e quindi facile a essere imbrogliato, come gli accadde più di una volta da parte di soci e amici”. Aveva anche i classici vizi del cow-boy: “beveva smodatamente – si dice anche una bottiglia di whisky al giorno, fino a quando la salute lo sostenne – ed era facile alle tentazioni femminili”. Inoltre andava fiero del suo titolo onorario di colonnello, “esibendosi in pista con i simboli del grado – due aquile – cucite sulle spalle della sua giacca di pelle di daino. Si dimostrò anche onesto quando descrisse l’uccisione di Mano Gialla esattamente com’era avvenuta, senza inventarsi – cosa che avrebbe poi fatto la stampa – immaginari duelli tipici del cinema western”.

Bill dei Bisonti

Tuttavia il nome “Bill dei Bisonti” se lo meritò non per aver scotennato indiani, ma dopo aver vinto una gara di caccia al bisonte contro William Comstock, a cui apparteneva originariamente il nome Buffalo Bill. Perché pare che il nostro ci sapesse parecchio fare con il fucile e fosse pure un bell’uomo, almeno per i gusti estetici del tempo. Eroe, belloccio, cow-boy: ci vuol niente a farlo diventare un personaggio. Ottimo in scena (per undici stagioni interpretò a teatro le novelle popolari che su di lui scrisse dal 1873 in poi Ned Buntline). Superlativo per l’immaginario collettivo già a cavallo fra Ottocento e Novecento. Quando divenne impresario teatrale e fondò il suo circo, il “Buffalo Bill Wild West Show”, dopo un’esperienza nel circo Barnum. Ben prima che cinema e fumetti lo facessero diventare un mito, sempre più discutibile con il passare degli anni e il cambiamento delle sensibilità dell’opinione pubblica.

Ma perché parliamo di Buffalo Bill (a Bergamo)? Perché tra le tante proposte della Fiera di Sant’Alessandro ci sarà anche un’area western, con saloon, banchetti di abbigliamento a tema, artigianato etnico e le gare di campionato di monta western. Dunque perché non rievocare le volte in cui Buffalo Bill venne in città?

1894: il cavallo contro la bici

Nel 1894 Buffalo Bill non solo porta al Teatro Riccardi (oggi Donizetti) il suo circo che rappresenta la battaglia di Little Big Horn, ma gareggia in una sfida fra cavallo e bicicletta, in cui ai pedali c’è Amilcare Perico detto “il Diavolaccio”, ciclista e, dicono le cronache, decoratore di via Sant’Alessandro. La sfida avviene nei pomeriggi di quei giorni d’aprile (27, 28 e 29) in cui la carovana è dalle nostre parti.

Bill lascia a Perico un po’ di vantaggio e il confronto si svolge in modi diversi. Prima sulla pista del ciclodromo (vince Buffalo Bill, l’handicap nonostante). Poi partendo da Campo di Marte (l’odierna via Codussi) per arrivare – su strada non asfaltata com’erano allora le vie di Bergamo – ancora al ciclodromo e compiere due giri di pista (vince ancora Bill). Dunque gran finale con Buffalo Bill che, oltre allo svantaggio, deve cambiare cavallo ogni cento metri, mentre Perico pedala come non mai (il soprannome “Diavolaccio” è tutto un programma). Identica la partenza (Campo di Marte), diverso l’arrivo con due giri dell’ippodromo di via Angelo Mai.

La scena è fra l’epico e il comico: uno salta di cavallo in cavallo, l’altro pedala come se fosse posseduto da chissà quale demone. Perico è il primo a entrare nell’ippodromo, mentre cinque cavalli attendono Bill sul tracciato finale: alla fine vincerà l’americano, dicono sempre le cronache, “con 72 metri di vantaggio”, misurati non si sa come. Stupito il pubblico bergamasco. Sconfitto con onore Perico (che riceverà comunque un premio dalla sua azienda: una nuova, mirabile bicicletta). Trionfatore Buffalo Bill su e giù da cavallo, tutt’altro che “culo di gomma” come De Gregori avrebbe definito gli automobilisti in quel bozzetto-capolavoro sul mito americano che è la canzone “Bufalo Bill”. Una delle tante espressioni artistiche che di Cody avrebbero alimentato la leggenda.

1906: “La più grande riunione dei cavalieri”

Leggenda che scricchiola non poco quando Buffalo Bill torna in città nel 1906. Bill annuncia la sua presenza “per un solo giorno” (lunedì 7 maggio 1906). Il nome del circo è sempre lo stesso ma la presentazione è a dir poco altisonante: i manifesti, diffusi ovunque in città, annunciano che “Più non torneranno”. E poi: “La più grande riunione dei cavalieri”, “una truppa di samurai giapponesi”, “cento pellirossa”, “gran manovre di artiglieria”. Uno spettacolo “senza uguali al mondo”. Insomma, siamo alla baracconata o giù di lì a fronte del costo dei biglietti (da 2 a 8 lire, “acquistabili alla libreria Fratelli Bolis di via Torquato Tasso”).

Bill è in tour negli Stati Uniti e in Europa dal 1883. Fatti due conti, sono ventitré anni che porta in giro lo stesso format, si direbbe oggi, arricchendolo di numeri che non hanno nulla a che fare con l’epica western. L’arrivo in città è magniloquente: cinquantotto vagoni ferroviari, 800 uomini di diversa provenienza e cinquecento cavalli. Indiani, cosacchi del Caucaso, giapponesi, arabi, cow-boy, messicani, cinesi, tutti nei loro costumi caratteristici. Un grande show, forse troppo.

L’intero circo si posiziona al Campo di Marte, riempito di tende per accogliere gli spettatori e dare alloggio agli artisti e a tutto il personale lavorante. Se vi immaginate il circo con l’enorme tendone siete fuori strada: il “Buffalo Bill Wild West Show” è composto da un ripetersi di “tende impermeabili predisposte per ospitare migliaia di spettatori, tenuti così al riparo dal sole e dalla pioggia”; l’illuminazione è garantita da un innovativo sistema di illuminazione con una forza di 25 mila cavalli.

Quelle sopracitate sono le cronache de L’Eco di Bergamo di allora, che raccontano come, nonostante tutto, l’occasione abbia un che di stupefacente: “Il padiglione cucina-refettorio è enorme, con caldaie a vapore, otto cuochi, otto garzoni, tre beccai e 40 camerieri. Specialmente curiosi sono i piccoli padiglioni degli indiani, che essi stessi hanno eretto con alti pali e tende dipinte”. Degli indiani la cosa più meravigliosa è la preparazione: “Sono quasi interamente nudi, ma la loro nudità scompare sotto una patina di colore. Ve ne sono di tutte le tinte: gialli, rossi, blu, celesti; alcuni sono striati, altri hanno le braccia, le gambe e il viso dipinto con disegni primitivi. Come ornamento poi usano lunghe penne disposte soprattutto sul capo. Tali e quali come si vedono nelle oleografie che riproducono l’arrivo di Cristoforo Colombo nel Nuovo Mondo”. Fra tutti lui, Buffalo Bill, “una fiera e maschia figura: monta elegantissimamente una saura dorata, di forme bellissime […] Si è esibito in esercizi di tiro a cavallo: un indiano gli galoppava davanti gettando in aria delle palle di vetro che lui è sempre riuscito a spezzare con colpi di fucile. Fantastico!”.

Fantastico, ma il pubblico non gradisce, a dispetto della fama raggiunta da Buffalo Bill in quel momento. Non tornerà mai più a Bergamo e morirà nel 1917, venendo seppellito come da sua richiesta sulla Lookout Mountain in Colorado, a est della città di Denver.

William Frederick Cody, come avrete intuito, ebbe una vita parecchio avventurosa. Conobbe il dolore e la morte in guerra ma anche i luccichii dello show-business di allora – con il suo circo fu una delle attrazioni principali a Londra durante il Giubileo d’Oro della Regina Vittoria nel 1889 e all’Esposizione Mondiale di Chicago del 1893 – ed ebbe una moglie, quattro figli, un assistente indiano pellerossa, trovando anche il tempo di convertirsi al cattolicesimo e incontrare nel 1890 papa Leone XIII. “Il mio spirito irrequieto e vagabondo non mi avrebbe permesso di rimanere a casa molto a lungo” disse una volta. Ed è forse questa frase a riassumere al meglio l’indole di un uomo che, alimentando l’epopea western, fece sognare molti, anche nel tempo a venire.

Sito Fiera di Sant’Alessandro

(Non avrei scritto questa storia senza gli articoli di Francesco Mannoni che ha intervistato Domenico Rizzi, Emanuele Roncalli e Renato Ravanelli, che ringrazio)

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