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#psicogeografie: raccontiamo storie per non perdere la memoria

Articolo. Oggi, 27 gennaio, si celebra il Giorno della Memoria, perché è importante non dimenticare il passato per non ripeterne errori e orrori. Ma non bisogna nemmeno distrarsi e togliere l’attenzione da orrori e errori del presente

Lettura 5 min.

In psicologia, la memoria è la funzione che permette di conservare tracce della propria esperienza passata e di saperla rievocare grazie al ricordo. I ricordi, poi, possono affievolirsi o cambiare a seconda del naturale funzionamento della memoria stessa o per motivi personali, quali malattie, traumi o, secondo Sigmund Freud, a causa della rimozione, un meccanismo per cui “nascondiamo” in qualche angolo remoto della nostra psiche qualcosa che consideriamo inaccettabile, perché troppo carico emotivamente o perché legato a qualche forte tabù.

Qualcosa di simile può succedere anche alla memoria di un popolo o di uno Stato, all’insieme dei ricordi di un gruppo di persone, alla nostra memoria collettiva. Il ricordo tende ad affievolirsi fino a scomparire nell’oblio. Per rinforzare un ricordo, è necessario rendere più solida la traccia che lascia nella memoria, consolidarla. Nell’esperienza scolastica di tutti c’è la necessità di ripassare prima di una verifica o un esame. Ripassiamo dunque anche fisicamente nei luoghi che hanno un significato nella nostra storia che rischiamo di dimenticare, perché il ricordo può essere doloroso.

Anche la nostra città aveva il suo campo di concentramento: il Campo 62 di Grumello al Piano, fra Bergamo e Lallio. Era un campo in cui sono stati detenuti soprattutto prigionieri militari e politici e, da un certo punto in poi, anche jugoslavi, in condizioni disumane e crudeli. È una parte della storia della nostra città che resta relativamente sconosciuta. Collettivamente, forse, abbiamo rimosso questo pezzetto della nostra storia. Comprensibilmente, è spiacevole riconoscere di esser stati “dalla parte dei cattivi”, è una cosa che difficilmente si vuole ricordare.

«Chi non ricorda la Storia, è condannato a ripeterla» recita una frase attribuita a diversi personaggi. Personalmente, non credo in quella che si definisce “coazione a ripetere”, ovvero quella tendenza in chi ha subito un torto o una violenza a ripeterla. Certamente può succedere, ma non è un istinto naturale, la psiche non si difende dalla violenza subita ripetendola. Più spesso può capitare che qualsiasi tipo di violenza sia intollerabile. A livello di uno Stato o di un popolo, una riflessione sulla propria storia e sul proprio passato è necessaria, anche se non sufficiente.

Anche a livello individuale, una funzione della memoria è quella di apprendere dalla propria esperienza per non ripetere eventuali errori. Impariamo spesso con l’esperienza che il fuoco scotta e che non ci dobbiamo avvicinare troppo. Nel 2016, con l’associazione Repubblica Nomade, ho partecipato a un cammino che, partendo da Trieste, sarebbe arrivato a Sarajevo dopo circa 600 km e 5 settimane. Erano anni in cui cominciavano nuovamente a diffondersi nelle parole dei politici discorsi razzisti e discriminatori, argomenti che hanno portato a guerre sempre più sanguinarie. Siamo partiti dalla risiera di San Sabba, a Trieste, campo di concentramento e di sterminio, e siamo arrivati a Sarajevo, dove è avvenuto l’attentato che ha portato alla prima guerra mondiale, e città che ha subito un lungo assedio nella guerra fratricida che ha sconvolto la ex Jugoslavia pochi decenni fa. Sono luoghi e tempi vicini, e la direzione politica italiana e globale sembra andare di nuovo in quella tragica direzione.

Passare in quei luoghi, attraversarli e respirarne la storia nei volti degli incontri casuali, sui muri ancora crivellati di colpi, sui monumenti commemorativi o sui troppi cimiteri con lapidi con la stessa data, è stata un’esperienza attiva di ricordo. Il senso di quel cammino era portare l’attenzione alla pericolosità di un certo tipo di retorica in cui si divide l’umanità fra «noi» e «loro», e gli altri sono distanti, diversi, eliminabili.

Negli anni successivi, quella stessa strada è stata percorsa, a ritroso, da altre persone che stavano e stanno intraprendendo un viaggio non esplorativo, ma di sopravvivenza, la cosiddetta «rotta balcanica» di chi cerca di arrivare in Europa fuggendo da guerre, povertà, o comunque seguendo il sacrosanto diritto di trovare la speranza di un futuro migliore. Con alcuni amici siamo ripassati in alcuni dei luoghi che avevamo percorso a piedi e abbiamo avuto modo di vedere come è cambiata la situazione a Bihac, città bosniaca al confine con la Croazia, e quindi con l’Europa, dove migliaia di persone migranti vengono bloccate dalle politiche respingenti della comunità europea.

Ricordare, etimologicamente, significa «riportare al cuore». Il corpo è parte viva dell’esperienza della memoria e del ricordo: esiste una memoria corporea che registra i nostri traumi e possiamo sentire empaticamente quello che è successo a qualcun altro perché di base i nostri corpi sono uguali, i nostri cuori battono allo stesso modo.

L’immagazzinamento nella memoria può essere reso difficile da un’interferenza, una distrazione che sposta l’attenzione. Forse oggi siamo troppo distratti dal poter ricordare o memorizzare quello che è successo così vicino e associarlo a quello che sta succedendo a relativamente poca distanza da noi. Per andare oltre, può essere utile portare molta attenzione a quello che vogliamo memorizzare. L’attenzione è come un muscolo che va allenato (come avviene in molte pratiche meditative), e bisogna saper cogliere cosa tenta di distrarci.

Esistono discontinuità che possono attirare la nostra attenzione, attivare il nostro sistema emotivo e far sì che qualcosa ci rimanga impresso nella memoria. Le pietre d’inciampo hanno una funzione simile: creano una discontinuità, spiccano nell’omogeneità di una strada o una piazza, attirano la nostra attenzione e ci portano a scoprire una storia. Questi cubetti d’ottone riportano il nome di una persona che ha vissuto nello stabile di fronte a cui è posta la pietra d’inciampo, finché non è stata deportata e uccisa. Nella provincia di Bergamo se ne contano per ora 33, mentre in città 9, tutte legate a persone che sono state uccise perché considerate diverse, nemiche e quindi da eliminare.

Questo odio, che può tradursi anche in indifferenza, verso persone diverse, purtroppo è ancora vivo. Si perpetuano ancora politiche che negano diritti a chi è “diverso”, per religione, colore della pelle, orientamento sessuale, abilità, età, genere, nazionalità, condizione sociale, credo politico, tifo sportivo. Ci si concentra sulle differenze e non su ciò che ci accomuna, in quanto esseri umani. O, allargando il campo di attenzione, in quanto terrestri. Se ci sentissimo parte di un unico organismo, la Terra, o quantomeno di una grande comunità, l’Umanità, orrori del passato come i campi di concentramento che vengono ricordati oggi, o del presente – come le guerre in atto in Ucraina, a Gaza, nel Medio Oriente, e tutti i conflitti dimenticati o che restano sotto la soglia dell’attenzione, nonché la morte o la tortura di persone che hanno intrapreso un viaggio verso un futuro migliore (se non l’unico possibile), o ancora la negazione degli stessi diritti a chi è diverso – forse non sarebbero possibili.

Certo, non bisogna confondere ciò che è successo nel passato con quello che sta succedendo ora, ma nemmeno utilizzare il passato come alibi per nascondere le atrocità attuali (per esempio, alcuni intellettuali ebrei hanno sentito l’urgenza di scrivere una lettera aperta).

Per misurare e studiare la memoria e il suo funzionamento, in psicologia sperimentale si sono elaborati spesso esperimenti che comportano la memorizzazione e il successivo ricordo di sequenza di numeri. Questo perché, di base, i numeri hanno poco significato e sono quindi stimoli neutri ideali per un contesto di laboratorio. Per questo Refaat Al Areer , poeta e professore palestinese recentemente ucciso in un bombardamento israeliano a Gaza, ha coniato lo slogan: «Noi non siamo numeri».

Questo è l’errore e l’orrore che rende possibile guerre e politiche che lasciano morire persone in mare o sulle montagne. Se consideriamo altre persone numeri, la loro morte è solo una statistica. Ma se riusciamo a recuperare la consapevolezza che ogni essere umano ha una storia, una famiglia, un cuore uguale al nostro, ogni morte è una tragedia umana. Non perdiamo la speranza e non perdiamo la memoria. Continuiamo a raccontare e ascoltare le storie, per quanto dolorose, del nostro passato.

Poche settimane prima di venir ucciso, Refaat Al Areer ha scritto una poesia che si conclude con questi versi:

«Se dovessi morire,
fa che porti speranza
fa che sia un racconto!»

Coda…

Scrivendo questo articolo, ho scoperto che anche a Brusaporto, paese dove ho vissuto a lungo e dove ora ho il mio studio, è stata posta una pietra d’inciampo, molto vicino al luogo dove c’era la casa in cui è vissuta mia madre coi suoi genitori, i miei nonni. Anche mio nonno è stato internato in un campo di concentramento tedesco, a cui fortunatamente è sopravvissuto. I fili delle storie di tutti noi possono diventare trame, tessuto, e una rete di sicurezza che non ci faccia cadere, ancora, nell’abisso.

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