Quando ho iniziato a seguire “O anche no”, ero un po’ scettica rispetto all’idea che potesse trattarsi di una trasmissione che fosse in grado di proporre una narrazione diversa rispetto a quella alla quale siamo abituati da anni: delle storie strappalacrime nelle quali si ripercorrono tutte le tragedie e le difficoltà che la persona è riuscita a superare con sacrificio e determinazione. Il tutto possibilmente condito da qualche talento straordinario che gli ha permesso di riscattarsi rispetto alle suddette.
Beh, lo confesso: da disabile, sono lo spettatore medio ideale per questo tipo di immaginario. Perché non riesco a fare altro che proiettare questi messaggi di speranza su di me, che nella migliore delle ipotesi mi accontento di inciampare mentre cammino, sperando di non aver rovinato l’ennesimo paio di scarpe (e puntualmente fallisco).
Però guardando le puntate ho capito fin da subito che Paola Severini poteva essere la giornalista perfetta per condurre una trasmissione che parli onestamente di disabilità. E non perché si impegna da anni per la tutela dei diritti umani, perlomeno non solo, ma perché riesce a essere seria e misurata perfino quando ride.
Certo, è vero che le rappresentazioni offerte dai media giocano un ruolo fondamentale per attuare la rivoluzione culturale di cui abbiamo bisogno in Italia affinché l’inclusione non rimanga solo un’etichetta da esibire. Ma essere seri significa andare oltre alla spettacolarizzazione mediale che punta a dipingere i disabili come eroi.
La giornata internazionale della disabilità che ricorre il 3 dicembre è stata celebrata con uno speciale in prima serata dedicata ad un tema molto caldo: il lavoro. I rappresentanti dei principali sindacati sono intervenuti per portare esempi concreti di persone con disabilità (guai a chiamarli disabili!) che grazie ai servizi del collocamento sono riusciti a trovare un’occupazione. Per poi ammettere a testa bassa che di questi, meno del 35% riesce a effettivamente a inserirsi in un contesto lavorativo nel lungo periodo. Del resto, l’Italia detiene il record europeo del più alto tasso di disoccupazione delle persone con disabilità.
Ricordo ancora quando, fresca di diploma, andai insieme a mia madre nel Centro per l’impiego di Catanzaro. Dal colloquio emerse che la mansione che potevo svolgere era “addetto ai lavori generali”. Una denominazione che al tempo mi sembrò carica di responsabilità e densa di significati: lavori generali, non so se mi spiego.
Il paradosso fu che come disabile, per definire un incarico che fosse compatibile con le patologie di cui sono affetta ed essere inserita in quelle che sono definite “categorie protette”, mi sarei dovuta recare in un ufficio dislocato. Ma qual era la protezione che mi stavano offrendo se già all’ingresso mi trovavo di fronte una rampa di scale senza ascensore?
Non a caso, il primo a pronunciare la frase “Da vicino nessuno è normale”, che rappresenta un po’ lo slogan del programma, fu Franco Basaglia, neurologo e psichiatra le cui riflessioni gettarono le basi per la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici negli anni ’80. Nella sua fervente critica alle istituzioni, Basaglia sosteneva che il confine tra “normalità” e “anormalità” sia costruito politicamente e che la regola implicita su cui si basa questa separazione sia l’efficienza, ovvero la capacità di partecipare all’incremento di un sistema produttivo.
Cinquant’anni dopo, l’integrazione in uno Stato che si definisca di diritto è ancora intrinsecamente legata alla dignità, alla possibilità di sentirsi parte di una società in cui anche i disabili sappiano di poter dare il loro contributo come lavoratori.
E allora il primo punto a favore di “O anche no” è che non si piange e non si punta alla strumentalizzazione del dolore. Tutte le testimonianze parlano al presente e guardano al futuro come a volerci mostrare che una società alternativa è possibile. Una società parallela fatta di cooperative, associazioni e piccoli imprenditori che decidono di puntare sulle capacità di ragazzi con la sindrome di down che sono chef o fanno i responsabili di sala.
Presenze fisse della trasmissione sono i Ladri di Carrozzelle, una band in continua espansione che in trent’anni di attività ha saputo conquistarsi palchi prestigiosi come quello dell’Ariston. Assieme a loro i ragazzi dell’Albergo Etico di Roma affetti da disabilità fisiche intellettive e sensoriali che sono affiancati da coetanei ed esperti del settore che li seguono in un percorso di professionalizzazione.
Tra questi c’è Elena, una ragazza cieca dalla nascita, la quale racconta che spesso le difficoltà nel trovare lavoro dipendono dal fatto che c’è ancora molto da fare rispetto alle tecnologie adattative. Mentre la ascolto parlare, non resisto alla tentazione (e in questo caso al pregiudizio) di pensare a quanto possa essere spaesante vivere la vita senza poter fare affidamento su un organo che nella nostra cultura sempre più visuale è centrale. Ma lei, quasi a voler demolire il mio edificio di certezze, dichiara a proposito dei colori: “Per me sarebbe più facile rispondere ad una domanda sulla fisica quantistica che sui colori, sono come una specie di formula che ho imparato a memoria. Non li percepisco e ne farei tranquillamente a meno ma visto che esistono ne prendo atto e ci faccio caso anche quando devo scegliere come vestirmi”.
L’onestà intellettuale del programma si evince anche dalla capacità di adattare il format alle restrizioni della pandemia. E così mentre I ladri di Carrozzelle cantavano da casa e i ragazzi dell’Albergo Etico organizzavano con i genitori dei laboratori online per non perdere dimestichezza con le competenze acquisite, Paola Severini ha dato voce alle famiglie nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria. Quelle dei ragazzi autistici che si sono visti privare delle loro routine e quelle di ragazzi con la SLA che hanno dovuto interrompere le terapie con la conseguente progressione della malattia.
Indubbiamente ci fanno bene le storie di vita che ci parlano di persone che diventano youtuber per prendere in giro le loro malformazioni, di donne in carrozzina che fanno le modelle, di ingegneri che realizzano ausili protesici intelligenti. Tuttavia, il progresso tecnologico si scontra con la presenza di un intervento statale ancora fortemente improntato sull’assistenzialismo che relega le persone disabili ad una condizione di dipendenza dal contesto familiare, soprattutto dopo la fine del percorso scolastico. In questo senso, una trasmissione come “O anche no” aiuta a sconfiggere i pregiudizi, propone una narrazione della disabilità differente e in certi casi divertente, ma soprattutto – come in altri ambiti della politica – racconta come la realtà sia molto più avanti di ciò che (non) viene deciso nel Palazzo.
E mentre gli esempi di integrazione “virtuosa” provengono nella maggior parte dei casi da iniziative private, ancora ci chiediamo se sia più giusto parlare di disabili o di persone con diverse abilità. Senza avere poi la minima idea di come sia concretamente la vita di un paraplegico o di un cieco.
L’ipocrisia del linguaggio sembra quasi voler giocare a favore delle istituzioni che anacronisticamente ci dipingono ancora come categorie da proteggere. Allora ben vengano trasmissioni che mostrano la voglia dei giovani di sporcarsi le mani (letteralmente e non) che sfidano la logica assistenzialista e mettono al centro l’importanza della formazione professionale, a partire da quelle che sono le capacità effettive di ciascuno. Perché in fondo essere seri significa riconoscere che tutti possono fare tutto. O anche no.