Oggi funziona così: vediamo un vestito che ci piace, lo proviamo e voliamo in cassa per l’acquisto. Senza farci troppe domande su dove sia stato prodotto, e da chi.
È difficile immaginare le condizioni in cui lavorano oggi le operai e gli operai del fast fashion – le catene di moda che producono rapidamente e a prezzi stracciati, se non attraverso rari e potenti documentari, vere e proprie video denunce come «The True Cost» o «River Blue».
Emblema della scarsa sicurezza con cui si lavora nelle fabbriche della fast fashion è il disastro del 24 aprile 2013, quando a Dacca (Bangladesh) crollò il complesso aziendale Rana Plaza, uccidendo 1.135 operai e operaie che producevano per grandi marchi di moda internazionali tra cui Benetton, Mango, Primark, Yes-Zee e molti altri.
Le fabbriche del fast fashion sembrano distanti, ma non dimentichiamo che anche in Italia ci sono casi di capannoni di pronto moda dalle condizioni ai limiti dello sfruttamento. L’ultimo riscontro avvenuto a ottobre 2024, a opera dalla Guardia di Finanza di Prato.
Questo non significa astenersi del tutto dallo shopping, ma allenarci a essere consumatrici e consumatori un po’ più consapevoli: chiederci se quell’acquisto è necessario, prenderci cura di ciò che abbiamo, prediligere realtà trasparenti che pretendono standard sociali dignitosi. Ogni capo di abbigliamento ha una storia. Lungo la catena di produzione è passato tra decine di mani, ha viaggiato per migliaia di chilometri – considerando che è il Bangladesh a rifornire alcuni dei marchi di fast fashion più richiesti dall’Occidente, tra cui Levi’s, Zara e H&M.
La slow fashion, la moda lenta, è una delle possibilità per boicottare la fast fashion: abbigliamento prodotto in piccoli lotti, in modo etico; un abbigliamento che dura nel tempo. Per gli sguardi più sensibili al tema, in Italia spiccano brand di moda lenta come Rifò Lab (abbigliamento da filati riciclati), ID.Eight (snakers sostenibili) o Casa Gin (intimo prodotto in modo responsabile)…
La slow fashion nella bergamasca del passato
Nel XX secolo, la Val Gandino era l’antesignana di un moderno presidio di slow fashion . Ricchi pascoli e abbondanza d’acqua consentirono agli abitanti di Leffe e di Gandino di diventare lanieri, tessitori, tintori e soprattutto mercanti.
Tracce di questo passato sono custodite dal 2005 presso il Museo del Tessile «Ginetto Martinelli» di Leffe (si effettuano visite guidate), negli spazi che un tempo ospitavano una manifattura tessile. Lì le volontarie e i volontari di ARTS (Associazione Ricerche Tessili Storiche onlus) si prendono cura dei cimeli che hanno reso importante la Valle nell’ambito del tessile: il torcitoio circolare della seta (attivo sino al 1924, fra i pochissimi conservati in Italia), macchine di finitura dei tessuti (garzatrici, cimatrici, macchine per merletti), una macchina da ricamo degli Anni ’20 dotata di testa multipla (all’avanguardia all’epoca). Una sezione è interamente dedicata alla tintura di fibre, filati e tessuti con coloranti naturali, derivati da piante e radici.
Il museo propone anche una sala didattica multimediale, dove le scolaresche in visita possono riunirsi per lavori di gruppo o approfondimenti. Gioiello nascosto è il giardino esterno - aperto nel 2019 -, dove crescono le piante da cui aveva origine l’intera filiera.
In memoria dell’animo slow della Val Gandino, presso il museo è esposto un carretto dei Coertì da Léf, gli ambulanti stagionali che a partire da fine ‘800 vendevano nelle piazze coperte e corredi realizzati con scarti e ritagli delle fabbriche. Nulla da invidiare ai marchi slow fashion di punta che oggi dei tessuti riciclati la propria bandiera e vendendo in Italia e nel mondo.
Ripensare alla moda: cosa possiamo fare?
Non dimenticando i Coertì da Léf, che avevano fatto del recupero un’arte, anche noi possiamo mettere in atto piccoli cambiamenti per essere un po’ più responsabili con il nostro guardaroba.
Acquistare ciò che è necessario
Quando si prospetta un acquisto prova a chiederti: «Ne ho davvero bisogno?» e «Lo userò anche tra 2, 3, 4 anni?». Opta per materiali resistenti, cuciture ben fatte e valuta le mode passeggere. La fast fashion invoglia a comprare capi di tendenza, ma la scelta un po’ più responsabile è acquistare meno e puntare su pezzi che durino nel tempo.
Scegliere il second-hand
Acquistare capi di seconda mano prolunga il ciclo di vita degli abiti, riducendo la domanda di nuovi prodotti e l’impatto della produzione. Ultimo, ma non meno importante, i mercatini dell’usato e del vintage permettono di scovare capi originali, di qualità e con una storia.
Ripara e personalizza
Un piccolo buco o una zip rotta non dovrebbero essere una scusa per buttare un vestito. Allenarsi a riattaccare un bottone, rammendare un buco o accorciare dei pantaloni aiuta a dare nuova vita ai vestiti. Inoltre, molti capi di abbigliamento si possono personalizzare, rendere unici. Uno spunto fantasioso è il visible mending, tecnica di riparazione decorativa che trasforma i capi danneggiati in pezzi e artistici!
Supportare brand etici e trasparenti
Quando devi acquistare un vestito, valuta aziende che dichiarano in modo trasparente le condizioni di lavoro nelle fabbriche, i materiali usati e l’impatto ambientale. Certificazioni come GOTS (Global Organic Textile Standard) o Fair Trade forniscono garanzie su pratiche un po’ più etiche lungo la catena di produzione. Anche se questi capi costano di più, sono un investimento per il pianeta e per le persone.
Partecipare a scambi di vestiti
Gli swap party sono incontri per scambiarsi abiti tra amici, sono un modo divertente per rinnovare il proprio guardaroba senza comprare nulla di nuovo. Oltre a risparmiare denaro, si evita di alimentare il ciclo della fast fashion, dando valore a ciò che già possediamo.
Diventare consumatrici e consumatori un po’ più consapevoli non è immediato. È un percorso che dura tutta una vita, ma prendere consapevolezza di cosa si cela dietro da fast fashion è uno spunto per proseguire.
Spesso cerchiamo alternative futuristiche, soluzioni ancora da inventare; eppure la storia (anche la storia della Val Gandino e delle sue radici nell’industria tessile) ci lascia un grande stimolo: i prodotti locali che danno valore agli scarti hanno un altissimo potenziale – ambientale e sociale. E questo vale anche oggi, nel 2024 logorato dalla moda veloce.