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Donne che amano i fiori. Quel legame profondo tra botanica ed emancipazione femminile

Articolo. Oggi decorare il soggiorno con una carta da parati floreale o regalarsi mimose potrebbe non essere interpretato come una «dichiarazione femminista». Ma il cammino di liberazione delle donne è passato anche attraverso la guarigione erboristica, lo studio botanico e l’espressione artistica. Qualche nome? Elizabeth Blackwell ed Eva Mameli Calvino

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Edgar Degas, A Woman Seated beside a Vase of Flowers, 1865

Tra donne e fiori c’è un legame profondo, che ha a che fare proprio con quell’8 marzo che abbiamo appena celebrato. L’8 marzo 1908, lungo le strade di New York, marciarono circa 15.000 donne, accompagnate dallo slogan «bread and roses»: pane, per simboleggiare la sicurezza economica, e rose, per rivendicare una migliore qualità della vita. Lo stesso giorno, nel 1917, si tenne invece una manifestazione delle lavoratrici delle industrie tessili della Russia, ancora zarista, contro la Prima Guerra Mondiale. L’episodio venne considerato da molti come il primo vero atto della Rivoluzione di febbraio. Anche in questo caso, i fiori ricamati dalle donne sui tessuti diventarono il simbolo del cambiamento.

Nel nostro paese, fu l’Unione Donne in Italia (Udi) a celebrare, l’8 marzo 1945, la prima giornata della donna nelle zone d’Italia libere dal giogo nazi-fascista. Con la fine della guerra, l’8 marzo 1946, questa ricorrenza si estese in tutta Italia. Le politiche Rita Montagnana, Teresa Noce e Teresa Mattei scelsero come simbolo un rametto giallo di mimosa. Si tratta di un fiore leggero, ma appariscente e resiliente perché spunta tra i primi dopo la stagione avversa. Le violette, scelte in un primo momento, erano troppo care per la classe operaia.

Facendo ricerche, ho scoperto che quello botanico non è un linguaggio culturale esclusivamente italiano. Anche nell’Inghilterra vittoriana, così come tra le popolazioni aborigene australiane, la mimosa è un simbolo di femminilità. A volte, più delle parole, i fiori lanciano messaggi profondi.

Quindi i fiori sono femministi?

Oggi, decorare il soggiorno con una carta da parati floreale o indossare un abito stampato con le margherite potrebbe non essere interpretato come una «dichiarazione femminista». Ma diverse centinaia di anni fa la passione delle donne per i fiori e, di conseguenza, il desiderio di un’estetica floreale, non erano associati esclusivamente alla delicata innocenza, ma a una mente scientifica. Mi riferisco ai secoli XVIII e XIX, quando uno dei pochi rami della scienza considerato nell’ambito delle attività “signorili” era lo studio della botanica. Ciò ha portato molte donne ad acquisire familiarità con le immagini organiche e botaniche e anche a diventare esperte nella loro creazione.

Durante la fine del XVIII secolo, le donne potevano accedere più facilmente alla botanica rispetto a qualsiasi altra scienza: raccoglievano piante, le disegnavano, le studiavano, davano loro un nome, insegnavano ai loro figli le piante e scrivevano libri divulgativi sulla botanica. La libertà delle donne all’interno di questa disciplina era tale che durante questo periodo furono pubblicati diversi libri popolari scritti e illustrati da donne. Elizabeth Blackwell fuse la tradizione erboristica con l’abilità artistica in «A Curious Herbal» (1737-1739), che conteneva 500 illustrazioni di piante incise, incise e colorate a mano con descrizioni e nomi in diverse lingue, insieme a informazioni sugli usi medici.

A metà del XVIII secolo, un crescente interesse per l’esattezza botanica cominciò a sovrapporsi alla moda, con la diffusione di abiti a fiori. Ma l’amore delle donne per la botanica andò oltre. Mentre i naturalisti facevano escursioni e raccoglievano piante, repliche artistiche di esemplari speciali trovarono posto nella decorazione domestica. Le donne ricreavano la natura che studiavano intorno a loro con cera, carta e conchiglie. Comparvero disegni floreali su tessuti, piastrelle e carte da parati. E si iniziò a fare giardinaggio. Quando una passeggiata in campagna non era un piacere accessibile, il giardino di casa poteva offrire un mondo botanico privato. Uno sbocco per lo sviluppo intellettuale, scientifico e artistico delle donne, che trascendeva le divisioni di classe.

Oggi, l’associazione tra fiori e donne è vista come una sorta di cliché, ma l’origine del legame delle donne con la guarigione erboristica, lo studio botanico e l’espressione artistica nella storia parla di celebrazione femminile, non di un’imposizione esterna. Forse, la prossima volta che indosserete un vestito a fiori, potreste considerarlo un simbolo del potere femminista. Tanto meglio se presenta apparati radicali o strutture articolate.

Una metastoria botanica

Ora che la storia della mimosa si è unita all’importanza della disciplina della botanica per l’emancipazione femminile, veniamo a una storia nella storia. Quanti libri di Calvino avete letto da bambini? Ecco, questo autore del secolo scorso che ci ha fatti sognare sugli alberi aveva una mamma speciale alle spalle.

Eva Mameli fu una donna che infranse le regole del suo tempo scegliendo di studiare, diventare botanica e viaggiare. Nacque a Sassari nel 1886, nel 1903 si diplomò in una scuola pubblica, generalmente riservata ai soli maschi. E visto che dimostrò passione per la scienza si iscrisse all’università e studiò matematica e fisica. Nel 1910 iniziò a collaborare con l’Università di Pavia come botanica e proprio in questo ambiente conobbe Mario Calvino, un commerciante di fiori a livello internazionale, che si presentò alla sua porta con una proposta di lavoro e una di matrimonio.

Eva e Mario si dedicavano alla ricerca raccogliendo dati, catalogando piante, sperimentando colture, ma si interessavano anche del benessere degli abitanti dei luoghi dell’America Latina in cui si spostavano e che lavoravano con loro. Istituirono una scuola per i campesinos e i loro figli, organizzarono corsi per i coltivatori e fondarono una rivista per diffondere nuove tecniche di coltivazione. Eva promosse anche corsi professionali per le ragazze delle comunità perché potessero emanciparsi.

Al rientro in Italia nel 1925 si stabilirono a Sanremo, dove Mario era stato chiamato a dirigere un progetto di floricoltura sperimentale di cui Eva divenne vicepresidente. A tal proposito, fu proprio lei a portare in Italia il kiwi, il pompelmo, alcune varietà di palme e la yucca. Fondò anche la rivista «Il Giardino Fiorito», che diresse fino al 1947 e intorno a cui si creò una fitta rete di floricoltori, giardinieri, editori e studiosi. I due innamorati vissero il loro gran finale a Villa Meridiana, una casa ai margini di Sanremo. Qui durante la Seconda Guerra Mondiale, diedero asilo a partigiani ed ebrei in fuga rischiando spesso la fucilazione. Il marito morì poco dopo la guerra, nel 1951, lasciando all’amata la direzione del suo centro sperimentale e della loro casa botanica. Eva non si diede per vinta e continuò a scrivere, pubblicare e impegnarsi nel nascente movimento ambientalista prima di morire nel 1978 a 92 anni.

Con questo modello di vita e un omaggio al linguaggio universale dei fiori, celebro il mio modo di essere donna con voi.

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