“Falso positivo”, un’intima e accurata analisi sulle cause e gli effetti dell’anoressia


Federica de Donato, autrice di “Falso positivo”, pubblicato dal Gruppo Albatros Il Filo, premette nel suo prologo che non si aspettava che la sua esperienza diventasse un libro: fino a pochi anni fa non avrebbe neanche voluto parlarne, ancor meno scriverne, e tutt’ora pensa a quanti dei suoi amici e conoscenti scopriranno tra le pagine della sua opera lati di lei di cui non erano consapevoli e a quanti ancora tra chi invece non la conosce di persona scopriranno gli aspetti più intimi della sua storia senza averla neanche mai incontrata. “Falso positivo” è un’opera emotivamente intensa che non smarrisce mai la lucidità di raccontare le dinamiche del disturbo alimentare che l’autrice ha vissuto sulla sua pelle. Un racconto profondamente intimo ma allo stesso tempo analitico, il risultato di un difficile percorso di consapevolezza e guarigione, che si avvale di articoli dedicati allo studio e alla spiegazione dei complessi aspetti dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA), corroborati dalle riflessioni personali di Federica de Donato: “un racconto trasversale”, lo definisce l’autrice, “declinato in articoli, ognuno che mi riguarda e ognuno che tenta di raccontare cosa si vive, in tutte le sfaccettature che mi sono venute in mente, quando si deve scendere a patti con un disagio mentale”. Ammette inoltre che lei per prima abbia iniziato a sentirsi meglio quando leggeva di altre persone nella sua situazione che avevano trovato il coraggio di raccontarsi, superando vergogna e paura: “Falso positivo” è il frutto del suo tentativo di contribuire anche con la sua storia all’intento di chi per primo le ha dato quel conforto, ossia di aiutare chiunque si trovi ad attraversare le inimmaginabili difficoltà di combattere una battaglia contro se stesso, contro i segnali confusi della propria mente che ha perso l’equilibrio, vittima di un disturbo troppo spesso incompreso.
Tutt’oggi ancora in molti ignorano le reali difficoltà dietro ai DCA e non è raro sentire opinioni imprecise o pareri superficiali da parte di chi li osserva da una certa distanza, pensando che basti solo mangiare un po’ più carboidrati per risolvere l’anoressia, per esempio: la coraggiosa testimonianza dell’autrice, avvalorata dalla spiegazione “tecnica” delle meccaniche psicologiche alla base dei disturbi alimentari, scopre il velo dell’ignoranza su un argomento troppo spesso frainteso e fa chiarezza nella speranza di poter dare una mano a chi ne ha bisogno, perché anche lei ammette che non avrebbe potuto farcela da sola. Per questo ringrazia chi ha potuto capire la sua sofferenza, chi con lei non ha mai mollato la presa anche quando non c’erano speranze a cui aggrapparsi, chi ha scelto di non attaccarla e di dare tempo nonostante potesse sembrare che lei non lo impiegasse in alcun modo.
Federica de Donato racconta del suo viaggio lungo sedici anni attraverso il tortuoso e difficile percorso del suo disturbo e delle fragilità che vi si celavano dietro. Descrive una quotidianità di sotterfugi per nascondere la verità ai suoi conoscenti senza privarsi di uscire per andare a cena fuori: diceva loro di essere intollerante al glutine e al lattosio per assicurarsi di mangiare in un ristorante che avesse il menù adatto alle sue esigenze alimentari privative. Ma la pandemia stravolse gli equilibri già precari della sua situazione: “prima il Covid ha sradicato quei tocchi sociali sistematizzati che tenevano assieme le giornate, trasformandoci in esseri che puntano a sopravvivere e non a vivere davvero. Poi è intervenuto l’alcool, che rendeva il tutto un po’ più accettabile e metteva le giuste distanze dal dolore”, rivela l’autrice, che nei successivi capitoli racconta anche le complicazioni della “drunkoressia”, a metà strada tra anoressia e alcolismo; “ma nel naufragio senza fine che stavo vivendo, continuando a cercare conferme che non arrivavano e risposte che non esistevano, alla fine, quando tutto è stato troppo, e nemmeno l’alcol riusciva a mettere a tacere i miei pensieri e ad edulcorare le mie emozioni, è arrivato il Binge. Io lo chiamo the Pig e con lui sto ancora lottando, tutti i giorni”. Il Binge Eating Disorder è un altro dei disturbi analizzati nell’opera, di cui l’autrice è diretta testimone: lo descrive come una corrente del mare in tempesta, una corrente ingovernabile che ti trascina con sé, togliendoti la padronanza dei tuoi stessi istinti e portandoti a mangiare per compulsione, mentre i buoni propositi continuano ad allontanarsi, sempre prefissati per l’indomani ma mai raggiunti.
La sincerità con cui l’autrice si mette a nudo ricorda ai suoi lettori che ammalarsi non è una scelta: il mondo in cui viviamo impartisce un’educazione competitiva, dove è necessario essere migliori degli altri per spiccare, che spinge alla perfezione e dà fin troppo risalto all’estetica, creando una società discriminatoria, selettiva e divisa. Rievoca un episodio risalente alla terza elementare, quando i bambini della sua classe stilarono una classifica delle bambine, in ordine dalla più bella alla più brutta. Ben più di un innocente gioco e soltanto uno degli innumerevoli indizi che ci forniscono analoghi episodi, di cui in molti oltre l’autrice sono stati parte: la dimostrazione di quanto la cultura basata sull’estetica e la discriminazione venga assorbita inconsapevolmente fin da piccoli. Uno schema educativo disfunzionale che è difficile da sradicare, che arriva a far credere a un bambino di non andare bene così com’è, impartendogli la necessità di cambiare. Così, crescendo, il bambino diventerà grande con la consapevolezza implicita che ci sia sempre qualcuno pronto a giudicarlo e che l’opinione altrui sia il metro del suo valore: quando queste sensazioni di disagio crescono, per esempio nel periodo dell’adolescenza, per sopperire alla destabilizzazione entrano in gioco meccanismi difensivi che non comportano il ricercare conforto dalla famiglia, dal momento che in quella fase della vita si è sempre alla ricerca di una propria indipendenza. È in questo contesto che entrano in gioco i disturbi dell’alimentazione, prendendo forme ingannevoli e promettendo semplici risultati.
In “Falso positivo” l’autrice raccoglie articoli, riflessioni personali e spiegazioni degli aspetti diagnostici e clinici del disturbo che fanno da sfondo e approfondiscono la sua esperienza, raccontata con onestà e precisione in questa autobiografia sia analitica che emotivamente coinvolgente: una testimonianza preziosa che l’autrice dedica al prossimo, a chi ne abbia davvero bisogno, offrendo molti spunti di riflessione e un nuovo sguardo con cui contemplare quei disturbi fin troppo comuni e ancora spesso ignorati nella società odierna. Non lo fa con la pretesa di cercare l’apprezzamento o il compatimento altrui, ma soltanto con l’intento di aiutare e fornire una chiave di lettura inedita sull’argomento: “la stima degli altri, le loro opinioni, impregnate dei valori e dei disvalori, culturali e sociali, caratteristici del nostro tempo, ci riempiono di significato quando non abbiamo una nostra base sicura, su cui poter esprimere personalità, capacità, idee e anche i difetti. Ma è un falso positivo, perché se non viene da dentro, non può durare”.

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