Gleno, la memoria di quella mattina

IL RACCONTO. Alle 7,15 di una mattina qualunque, su al Gleno, prima della neve. Ma nessuna di queste è una mattina qualunque, non lo può essere.

Cent’anni fa qui, dove adesso c’è un ponticello di cemento pulito pulito, dove arriva gente un po’ da ovunque e scatta selfie buoni per i social, dove persino se vuoi ti puoi fermare a cena quando c’è il fresco dell’estate, cent’anni fa qui stava per venire giù tutto.

Diga del Gleno: inaugurata nell’ottobre del 1923 dopo un cantiere tormentato, e subito messa alla prova, durissima, da una serie di piogge senza fine. L’acqua che sale, fin su al culmine, stremando quella struttura che pareva sì possente e all’avanguardia, una specie di sfida alle tecniche di costruzione dell’epoca. Ma invece era fragile dentro e fuori, e quando l’acqua si arrampicò fino al culmine sfondò tutto. Qui, dove siamo adesso, il custode Francesco Morzenti non fece nemmeno in tempo a tornare al telefono per gridare a quelli della centrale che al posto di un po’ d’acqua in più nei tubi di lì a poco sarebbe venuto giù tutto il lago, insieme alla diga.

Corse solo più che poteva, il Morzenti, su per la costa della montagna, la più ripida. Impossibile attraversare la diga per salire dall’altro lato, sfidando il mostro. E da lassù il Morzenti vide nascere quel che la valle ha sempre chiamato con un solo nome: ol disastro. Mai in dialetto, il sostantivo: mai disaster, sempre e solo disastro, in italiano. «La parola in dialetto c’è anche - dicono in Valle - eppure è sempre stato chiamato in italiano». Come se fosse troppo grande il fatto, troppo grave la tragedia, troppe le vite tolte e le famiglie mutilate, per derubricare il Gleno a un disastro dialettale. Una forma di riverenza. Ol disastro, con rispetto parlando.

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