Pink Ambassador della nuova vita: «Dopo il tumore, il meglio di me»

LA STORIA. Alessandra Ceruti, 48 anni, vinta la battaglia contro il cancro al seno si è impegnata per la ricerca.

«Rinascere ascoltando il proprio cuore, il corpo, tra mille paure, ma pronte a godersi tutto». C’è molta luce nelle parole che Alessandra Ceruti, 48 anni, di Bergamo, ha scritto per accompagnare le sue foto che saranno esposte - accanto a quelle di altre donne - nella mostra «Oltre» di Gianluca Burini e Federica Masoni l’8 marzo (ore 15-18,30) e il 9 e il 10 (ore 15-22) nel «Fondaco del sale» di via Salvecchio 11 in Città Alta, promossa dalle Pink Ambassador a sostegno della Fondazione Veronesi.

Dalla scoperta di un cancro al seno alla sua «seconda vita» Alessandra ha compiuto un cammino di consapevolezza e scoperta di sé che oggi la porta a vivere le sue giornate con più attenzione, dedicando spazio a se stessa: «Ho superato le mie paure, ho imparato a vivere pienamente ogni giornata».

Sposata con Andrea, mamma di Annalisa, 19 anni e Alberto, 17, per molti anni Alessandra è stata assorbita dalla sua famiglia e dal lavoro: «Mi sono laureata in lingue - racconta con un sorriso - due giorni prima di partorire mia figlia». Tenace e determinata, ha sempre tenuto fede ai suoi impegni: «Mi sembrava di avere davanti un tempo infinito. Ho sempre mantenuto uno stile di vita sobrio e salutare: non fumo, non bevo, amo lo sport, in particolare il nuoto. Non pensavo proprio di ammalarmi».

Si è insinuato, inosservato

Il cancro si è insinuato nella sua vita inosservato, come un ostacolo inaspettato: «Ho ricevuto l’invito a partecipare allo screening mammografico. L’appuntamento era fissato per il 23 dicembre, due giorni prima di Natale. Sono riuscita a farlo spostare dopo le feste, il 4 gennaio del 2021. Ci sono andata in modo spensierato, come sempre. Mi sentivo bene, non avevo nessun sintomo».

Dopo la mammografia c’è stata un’attesa di oltre un mese: «Mi hanno richiamato il 10 febbraio, proprio il giorno del mio anniversario di matrimonio, invitandomi a eseguire un’ecografia di approfondimento. Mi era già capitato, perciò non me n’ero preoccupata». Questa volta, però, il risultato è stato diverso: «Già durante l’esame mi sono resa conto che avevano trovato qualcosa: hanno eseguito anche ago aspirato e biopsia. Pochi giorni dopo mi hanno chiesto di tornare in ospedale».

La diagnosi prendeva forma in piccoli particolari che Alessandra in altri momenti non avrebbe neppure notato: «Quando sono arrivata in ambulatorio mi sono accorta che c’erano donne in attesa con un numero qualunque e poi c’eravamo noi, con un tagliando diverso, di colore verde. Avevo il numero 88».

L’oncologo le ha spiegato che aveva un tumore di sei millimetri: «Era all’interno, perciò non si sentiva al tatto, se non avessi fatto la mammografia non me ne sarei accorta. Era di tipo G3, quindi aggressivo, perciò è stato un bene individuarlo precocemente. Mi hanno spiegato come avremmo dovuto procedere, e io mi sentivo smarrita, così sorpresa e spiazzata da questa notizia che non sapevo cosa dire».

A quella visita ne sono seguite altre, con diversi specialisti, per capire meglio: «Ci sono voluti due mesi per arrivare all’intervento, eseguito all’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo. Nel frattempo mi sono lambiccata il cervello pensando cosa mi sarebbe potuto accadere. Ci sono stati momenti brutti in cui ho avuto paura di morire, di lasciare soli mio marito e i miei figli. All’inizio ho fatto fatica a parlarne con loro».

Sicura grazie ai medici

Si è sentita sicura nelle mani dei medici e ben curata, nonostante abbia dovuto affrontare le visite, gli esami e l’intervento da sola, a causa delle restrizioni dovute alla pandemia: «Ho potuto contare su tutti gli ultimi ritrovati della ricerca, e anche questo mi ha fatto capire quanto sia importante sostenerla. Sono stata sottoposta a radioterapia intraoperatoria, così dopo l’operazione ho dovuto aggiungere solo altre 13 sedute. Dopo un’attenta valutazione ho deciso insieme al medico di non proseguire con la chemioterapia, perché questo percorso mi garantiva già una percentuale di guarigione del 94%. Ho terminato le cure il 26 maggio, il giorno prima del mio compleanno, che ha segnato così il passaggio verso la seconda parte della mia vita, l’inizio della mia rinascita. Ho portato i pasticcini in reparto per festeggiare. Subito dopo ho iniziato la cura ormonale, che ora è arrivata al terzo anno su cinque».

Dopo l’intervento, mentre le sue ferite si rimarginavano, Alessandra si è sentita sommergere da un senso di vulnerabilità, sperimentando tutte le sfumature della paura, che, come scrive lo scrittore australiano Gregory David Roberts è «l’emozione più difficile da gestire. Il dolore si piange, la rabbia si urla, ma la paura si aggrappa silenziosamente al cuore».

La vera rinascita

«Avevo paura di qualsiasi cosa - osserva Alessandra - come chi non riesce più a guidare la macchina dopo un incidente. Ero spaventata da qualsiasi segnale anomalo del mio corpo». Ha attraversato questo brutto periodo grazie all’aiuto di suo marito: «È la mia roccia, con lui posso affrontare tutto. Grazie a lui piano piano sono riuscita a esprimere meglio ciò che provavo e ad affrontare la situazione. La vera rinascita però è iniziata quando ho scoperto il progetto delle Pink Ambassador e ho deciso di farne parte. Volevo cimentarmi in una sfida nuova che fosse soltanto per me».

Le Pink Ambassador sono donne che dopo aver affrontato un tumore hanno accolto l’invito della Fondazione Umberto Veronesi a diventare testimonial della ricerca e raccogliere fondi attraverso lo sport, affrontando una sfida ambiziosa: allenarsi per correre 21 chilometri, la distanza di una mezza maratona.

«Non avevo mai pensato di correre - osserva Alessandra - mi sembrava troppo faticoso. L’incontro con le Pink Ambassador però mi ha stimolato a superare i miei limiti. Non mi sentivo più sola perché avevo finalmente accanto altre persone che condividevano con me le stesse paure».

Ha trovato in loro delle vere amiche: «Penso che riescano a capire meglio come mi sento perché ci sono passate anche loro. Allo stesso tempo sono una fonte d’ispirazione, esempi che danno speranza e coraggio».

Così Alessandra ha superato gradualmente le sue paure: «Mi sono messa in gioco in tante attività che non avevo mai fatto: a volte molto semplici come uscire con le altre Pink per mangiare una pizza e andare a ballare. Grazie alla malattia, alla fine, ho avuto quindi una nuova occasione per ritagliarmi uno spazio tutto mio. Prima c’erano solo il marito, i figli, il lavoro, per me restava poco tempo. Ora cerco di lasciare da parte tutto ciò che non serve e magari mi fa stare male. Leggo molto, mi piace cucinare. Nello sport sono un diesel, mi avvio con lentezza ma poi vado avanti bene, con un ritmo costante. L’allenatore che segue il nostro gruppo mi incoraggia a fare ogni volta qualcosa di più, a pormi sempre nuovi traguardi. Così sono più felice e lo sono anche i miei familiari».

La mostra fotografica «Oltre» è un progetto che invita a scoprire le persone al di là della malattia: «Alla fine di novembre - spiega Alessandra - abbiamo partecipato a una sfilata con gli abiti di Giorgia Iori, stilista che ha realizzato una linea di modelli per noi Pink Ambassador di Bergamo e l’ha chiamata “Made of amore”. L’intento è sostenere la Fondazione Veronesi, devolvendole una parte del ricavato della vendita. Ci stavamo chiedendo a chi affidare le fotografie per pubblicizzare questa collezione quando il fotografo Gianluca Burini ha chiamato Giulia Cirelli, membro del nostro gruppo, e attraverso di lei, che già conosceva, ci ha proposto di partecipare all’iniziativa che stava mettendo a punto con la sua compagna Chicca per raccontare le storie di donne sopravvissute al cancro. Un’azione di sensibilizzazione nata in memoria di un’amica, Simona, che non ce l’ha fatta».

La mostra «Oltre»

Il gruppo delle Pink Ambassador di Bergamo ha aderito con entusiasmo: «Così Gianluca Burini ha realizzato le immagini per gli abiti di Giorgia e per questa mostra - dice Alessandra -. Ognuna di noi viene ritratta così com’è, con le sue cicatrici. Abbiamo partecipato con la nostra sensibilità e le nostre caratteristiche, cercando di mostrare chi siamo e come ci sentiamo. Il fotografo ha assecondato con molta disponibilità tutte le nostre richieste, rispettando il rapporto che ognuna di noi ha con la propria immagine e con i segni della malattia. Personalmente ho notato che le mie cicatrici con il tempo sono diventate parte di me, ora sono più facili da accettare. Mostrarle è un modo per dire che oltre il tumore c’è ancora - di nuovo - la possibilità di vivere bene. Con questa mostra teniamo vivo anche il ricordo della nostra amica Patty, che faceva parte del nostro gruppo e purtroppo non ce l’ha fatta. Non possiamo nascondere che si muore ancora di tumore. Anche per questo è importante sollecitare le donne a non dimenticare la prevenzione. Scoprire il tumore precocemente grazie allo screening vuol dire avere accesso a cure migliori e meno invasive, e quindi guarire più velocemente».

Le immagini dell’esposizione «Oltre» sono in bianco e nero, illustrano un passaggio dall’ombra alla luce. L’obiettivo, infatti, come spiegano gli autori, è «mostrare che anche nel buio è possibile trovare forze e risorse nuove per mantenere luminosi il fascino e la grazia di essere donna». In questo contesto anche Alessandra ha scelto di lanciare un messaggio forte: «Penso alle donne che affrontano ostacoli di qualunque tipo: auguro a ognuna di impegnarsi per diventare la versione migliore di se stessa. Credo che nella vita di ogni persona ci sia un momento di passaggio e di maggiore consapevolezza, per me è stato il periodo della malattia: mi ha aiutato a vedere che la mia parte migliore è quella che deve ancora venire. Non ho certezze, punto ad arrivare a un traguardo nuovo un passo alla volta».

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