La ricerca apre una nuova speranza: «Così ho recuperato fiducia nel futuro»

LA STORIA. Gaia Groppi è affetta dalla sindrome Crigler-Najjar che dà un colore itterico. Terapia genica per evitare il trapianto.

Per alcuni vivere «sotto i riflettori» è un sogno, per altri un incubo se comporta - in senso letterale - la necessità di trascorrere le notti sotto la «luce blu» delle lampade della fototerapia, come è avvenuto per tanti anni a Gaia Groppi, 31 anni, nata con la sindrome di Crigler-Najjar. È una malattia genetica molto rara - colpisce un individuo su un milione - collegata a un malfunzionamento metabolico, che impedisce all’organismo di eliminare la bilirubina. Un tempo l’unica soluzione definitiva era il trapianto di fegato, di recente però una terapia genica sperimentata per la prima volta all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo ha offerto ai malati una nuova speranza: «Sono stata una delle prime pazienti a sottoporsi a questo trattamento - racconta Gaia, 31 anni, di Sesto Calende, in cura da molti anni a Bergamo - e ne sono felice e fiera, anche se all’inizio ci è voluto un po’ di coraggio. Ho ottenuto risultati soddisfacenti anche se non definitivi, ma continuo a confidare nella ricerca».

La malattia come un «bagaglio»

Gaia lavora nell’ambito delle risorse umane in un’azienda di Milano, e considera la malattia come un «bagaglio» che in fondo la rende unica, e ha imparato a portarlo con leggerezza, anche se le è costato fatica, dolore, un grande lavoro su se stessa: «All’inizio non riuscivo ad accettarlo, col tempo ho imparato a conviverci. C’è chi è alto, chi è basso, chi non fa mai pace con il suo peso, a me è capitata questa sindrome. La diversità è un bel fardello, ma può anche diventare un’opportunità». Il segno caratteristico della sindrome di Crigler-Najjar, dal punto di vista estetico, è il colorito itterico della pelle e delle sclere degli occhi, che si associa - in particolare nelle forme più severe - ad altri problemi di salute. La bilirubina, infatti, ad alte concentrazioni può diventare tossica per l’organismo e causare danni cerebrali irreversibili.

Quando Gaia è nata, i medici non capivano che patologia avesse: «Sono rimasta in ospedale per i primi tre mesi. Avevo sempre mia madre accanto ed ero diventata la mascotte dell’ospedale, coccolata dalle infermiere. Poi è arrivata la diagnosi. Ci sono due forme della sindrome: nel tipo uno il deficit dell’enzima glucuronil-transferasi è completo, nel tipo 2 è parziale. La mia condizione è a metà tra le due, anche per questo sono risultata un’ottima candidata per la terapia genica».

Attraversare l’infanzia e la prima giovinezza non è stato sempre facile per Gaia: «I bambini spesso sono spaventati dalle differenze, non le accolgono facilmente. Il momento peggiore è stato quello delle scuole medie, in cui tutti si trovano di fronte ai cambiamenti della crescita. Facevo fatica a farmi degli amici, anche se sono per natura socievole e solare, stavo bene solo con chi era al corrente della mia situazione e l’accettava. Il giudizio iniziale sul mio aspetto mi frenava. Tante volte sono tornata a casa pregando i miei genitori di farmi fare il trapianto di fegato, che sembrava l’unica soluzione per guarire. Loro hanno sempre rimandato, spiegandomi che avrei potuto prendere questa decisione in seguito, dopo i 18 anni. Mi sono poi resa conto che è stata la scelta migliore. La terapia genica è una soluzione meno invasiva, meno drastica. Per spiegarlo a chi non conosce il problema in genere faccio questo esempio: se in cucina c’è un’anta che scricchiola la ripari oppure cambi la cucina?».

La serenità della famiglia

L’atteggiamento sereno della sua famiglia l’ha aiutata a non drammatizzare: «I miei genitori e mio fratello non mi hanno mai fatto sentire “malata”, anzi, mi hanno sempre incoraggiata ad essere intraprendente, affrontare le difficoltà a viso aperto, vivere “normalmente” senza farmi condizionare. Non ho mai sentito dire “povera Gaia”, anzi. Mi hanno sempre dato tutto il sostegno e l’aiuto possibile. Arrivata a 18 anni ho capito che la mia era una caratteristica come tante altre e ho iniziato a essere più espansiva, meno introversa. Nel frattempo ci siamo tenuti informati sui progressi della ricerca, seguendo in particolare l’evoluzione della terapia genica. Sognavo che fosse risolutiva, mi togliesse il colorito giallo e la necessità della fototerapia».

Il processo per arrivarci è stato lungo e complesso: «Ci sono stati diversi anni di osservazione, in cui ho compilato un diario quotidiano per fornire più informazioni possibili ai medici e ricercatori». Finalmente è arrivato il momento tanto atteso: «Sono stata sottoposta alla terapia genica, una dei primi nel mondo, all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, ormai tre anni fa. Ero molto emozionata quel giorno, mi sembrava incredibile. Si è risolto tutto con un’infusione durata quasi mezza giornata, sempre sotto il controllo di Lorenzo d’Antiga, direttore della pediatria dell’ospedale Papa Giovanni XXIII, sperimentatore principale del trial clinico e primo autore dello studio. Sono rimasta in ospedale solo per due notti, poi ho seguito tutto l’iter previsto di controlli, prima settimanali e poi mensili».

La terapia ha permesso a Gaia di sperimentare per la prima volta una condizione di piena «normalità»: «Il mio colorito è tornato roseo, quando mi hanno visto per la prima volta anche i miei familiari sono rimasti profondamente colpiti ed emozionati. Ho scoperto come può essere la vita senza la malattia, ho assaggiato una condizione diversa, senza dovermi preoccupare continuamente del mio aspetto. Il risultato è rimasto stabile per alcuni mesi, poi i valori hanno iniziato lentamente a risalire, anche se non sono più tornati ai livelli precedenti. Tre anni dopo il bilancio è comunque positivo, il miglioramento è stato molto significativo. Non devo più sottopormi ogni notte alla fototerapia con i raggi ultravioletti come prima, ma solo in occasioni particolari, quando serve».

Per Gaia dare un contributo alla ricerca è stato un valore aggiunto: «Dopo di me sono state trattate altre due persone, gli studi stanno proseguendo e anch’io sento di aver dato il mio contributo. I risultati che abbiamo ottenuto testimoniano la validità della terapia genica rispetto al trapianto per chi ha la sindrome di Crigler-Najjar. Spero poi che in futuro sia possibile proseguire e ottenere un risultato ancora più risolutivo».

La fototerapia ha avuto una grande influenza sulla vita di Gaia: «Quando non la facevo si vedeva, perciò non partecipavo mai alle gite scolastiche di più giorni oppure ai weekend fuori porta, in cui avrei dovuto necessariamente saltarla. Quando invitavo gli amici a casa non facevo mai entrare nessuno in camera mia, perché non volevo che vedessero le lampade e un letto così diverso dal loro. Le lampade lasciano il segno, come l’abbronzatura».

Ha incontrato Giacomo, che poi è diventato suo marito, nel 2017: «Non racconto subito a chiunque della mia patologia, ma sono disposta a parlarne apertamente con chi dimostra attenzione e interesse, e così è stato con lui. Col tempo ho imparato ad accettare i commenti degli altri con leggerezza, anche se non in modo superficiale. Con Giacomo è stato facile, perché hanno prevalso l’interesse e la curiosità. Ci siamo conosciuti in primavera e questo mi ha favorito, perché con il sole e con la bella stagione i miei problemi si attenuano. Ma lui si è subito dimostrato aperto, in grado di capire anche alcuni aspetti più specifici, dato che nella vita fa il chimico. Quando abbiamo iniziato a vivere insieme ho dovuto portare con me anche il bagaglio delle lampade, ma lui si è sempre dimostrato comprensivo, mi accetta per ciò che sono, mi solleva il morale nei giorni più grigi». La terapia le ha regalato un album dei ricordi perfetto per il suo matrimonio: «Le mie foto di quel giorno - scherza - sembrano tutte ritoccate, perché avevo un colorito roseo, senza nemmeno una punta di giallo».

La vita con il marito

Pensa al futuro con serenità, e con la leggerezza descritta da Italo Calvino, che «non è superficialità ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore»: «Non abbiamo ancora pensato ad avere dei figli, speriamo che arrivi prima la terapia, perché renderebbe più facile la gravidanza. Altrimenti, almeno per quel periodo, dovrò tornare alla fototerapia quotidiana con qualche accortezza in più rispetto a un percorso normale».

Convivere con una malattia rara l’ha portata ad aprirsi al mondo e conoscere tanti altri pazienti: «Ci conosciamo un po’ tutti noi con la stessa patologia. In Italia c’è un’associazione che si chiama Ciami e che ci ha sempre tenuto al corrente sui progressi della ricerca. La terapia genica è stata portata avanti da un’associazione che si chiama Genethon e coinvolge Italia, Francia e Olanda». Mantiene un legame forte con l’ospedale di Bergamo: «È una struttura d’eccellenza per la cura della sindrome di Crigler-Najjar, la frequento da molto tempo e ho sempre trovato molta competenza e attenzione, con il tempo ho creato un legame di fiducia e di stima con i medici che mi seguono».

Si augura che la sua storia possa trasmettere un messaggio positivo: «Mi è capitato di recente di confrontarmi con una giovane coppia, che ha appena avuto una bambina con la stessa sindrome: mi ha manifestato molta paura, molti dubbi per il futuro, ma io ho cercato di offrire un pizzico di leggerezza, conforto e rassicurazione. In fondo non mi manca nulla, ho accanto mio marito, tanti affetti, due gatti, amici, un lavoro. È importante riporre fiducia nella terapia e nella ricerca, e non perdere mai la speranza in un futuro migliore. E allo stesso tempo imparare a educare e sensibilizzare le persone ad accogliere le differenze senza giudicare, perché in fondo ognuno ha i propri “bagagli”. Dal mio punto di vista la conquista più importante è stata imparare ad accettarmi così come sono, primo passo per stare bene con gli altri».

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