Ravasio: «Il dialetto è cultura, sono le radici»

INTERVISTE ALLO SPECCHIO. Il prof cantautore: «È un tramite importante per ricostruire come eravamo». Proseguono le interviste in collaborazione con «Il Giornale di Brescia».

Il tema delle tradizioni di casa nostra è sempre stato caro a Luciano Ravasio: professore e cantautore alla maniera del buon Vecchioni. Lui è un depositario delle nostre tradizioni popolari. «In questi giorni sto giusto preparando un incontro col bresciano Charlie Cinelli», spiega. «Mi sono reso conto che il dialetto nei tempi ha assunto ruoli diversi: in passato era la lingua perfetta per intendersi in una società agro-pastorale, mentre in letteratura veniva utilizzato soprattutto in chiave comica. Nel Cinquecento gli Zanni a Venezia venivano considerati come momento di trastullo. Avevano questa lingua buffa, il bergamasco era diventato importante perché faceva sorridere. Questa è la punta dell’iceberg: se usi il dialetto susciti ilarità in chi l’ha perduto, e lo apprezza come lingua caricaturale. Il Vava canta i Beach Boys in bergamasco e in rete il successo è garantito. È quella che chiamano la tecnica della riduzione».

Ma in città il dialetto ha un ruolo oppure lasciamo l’eredità contemporanea al buon Daniele Vavassori, il Vava 77?

«Il dialetto non lo vedo più come qualcosa di vivo e duraturo, semmai lo vedo relegato all’ambito della cultura. Di certo il dialetto resta un tramite importante nella ricostruzione di come eravamo».

Scrive canzoni da sempre, ha studiato i «primi cantautori» bergamaschi.

«Sono nato come studioso di Pietro Ruggeri da Stabello, poeta dell’Ottocento. La mia specializzazione viene da lì. Sono sempre stato appassionato di musica. Studiando il Ruggeri ho scoperto che anche lui aveva scritto un testo per una farsa buffa che si chiamava “Oh de la mula”, musicata dal maestro Forini e rappresentata a Bergamo nel 1842. Negli anni Settanta Roberto Leydi ha pubblicato il volume dei canti popolari italiani. Da lì ho scoperto anche il filone della canzone popolare politica. Ricordo Mimmo Boninelli e altri. Andavano a cercare le canzoni che rappresentavano la lingua del popolo, del lamento contro l’oppressione del padrone. Erano le canzoni di protesta, di denuncia. Io ho sempre cercato il filone letterario e poetico».

Nel suo repertorio c’è anche una canzone di Bortolo Belotti, l’autore di «Storia di Bergamo e dei Bergamaschi»: «Tèra de Bèrghem».

«Ci sono anche altri poeti e letterati che ho incluso nel mio repertorio: Giuseppe Bonandrini, poeta e medico condotto, duca di Piazza Pontida; Giacinto Gambirasio, considerato da più parti il più importante poeta bergamasco del Novecento. Lo cita persino Pasolini. Ho musicato anche testi di Carmelo Francia. Da diversi anni c’è una manifestazione a Brescia che si chiama “Goi de cöntàla?” che fa un po’ quello che ho sempre fatto io. Prende testi di poeti dialettali e li fa musicare da musicisti di oggi, appassionati del genere, come Cinelli, Minelli e così via. È il filone che seguo e amo di più, anche se sono diventato cantautore».

Ma i dialetti bergamasco e bresciano hanno affinità?

«Io li trovo quasi identici, con piccole diversità. In sostanza la linea di demarcazione tra i mondi dialettali in Lombardia è l’Adda: tutto quello che al di là del fiume è una cosa, tutto quello che sta a Est è molto simile per cultura. Questo l’avevo sperimentato di persona girando a cantare col gruppo. Se andavi in Val Camonica era come andare in una qualsiasi nostra valle. Il pubblico rappresenta la campagna che si contrappone alla città. A Milano ci sono Jannacci, Svampa, i Gufi, un genere specifico: la canzone milanese di tradizione cittadina. Noi e i bresciani abbiamo una cuginanza vera. Sto leggendo il poeta bresciano Angelo Canossi, nato nell’Ottocento, morto nel ’43 del secolo scorso, e non guardo neanche le note. Capisco tutto. Cinelli ha musicato dei versi del suo concittadino».

Lei ha firmato recentemente «Bergamo in cammino» o «Bergamo XXIII», canzone che potrebbe fare da viatico a quello che rimarrà in città all’indomani di questo anno di Bergamo Brescia capitale italiana della Cultura.

«In realtà non è mai stata presa in veruna considerazione. Quel pezzo non arriva, fors’anche per l’impaginazione neoclassica. Ho una formazione da professore, c’è da capirmi. Mi piace usare l’endecasillabo, la quartina. Era una sorta di sonetto che s’è ampliato: “Bergamo così dolce di profilo / regalo per gli sguardi di pianura / ricama l’orizzonte del tuo largo sorriso / ché l’anima m’incanta e m’innamora. / E dentro la cornice delle Mura / racconti storie antiche di sudore, ingegno e fede / più in basso, multietnica, la Bergamo futura / fa onore col lavoro al Belpaese».

Leggi anche l’intervista a suor Catia Pintossi di Brescia, missionaria della Società di Maria, sull’edizione cartacea de L’Eco di Bergamo e sul sito de «Il Giornale di Brescia».

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