Gli «Spilli» di Livia: un rituale per fissare la vita che sfugge nell’ombra

L’AUTRICE. Alla rassegna «Lib(e)ri di sognare e pensare» Greta Olivo ha presentato il suo romanzo d’esordio. Attraverso la malattia agli occhi della protagonista racconta la paura della perdita del senso dell’esistenza.

Una storia terribile, una delle sorti peggiori che possano toccare ad essere umano: il progredire di una malattia della vista che, alla fine, rende ciechi. Ciò, perdipiù, vissuto da una ragazzina che attraversa il divenire, per certi versi impietoso, costellato di tappe obbligative, mal eludibili, dell’adolescenza. Greta Olivo, scrittrice romana esordiente, ha messo questa vicenda a cardine del suo primo romanzo: «Spilli» (Einaudi, pp. 198, euro 18,50), che ha presentato, il 12 marzo, in dialogo con Francesca Beni, nella Sala Sant’Agata del Circolino, per la rassegna «Lib(e)ri di sognare e pensare», organizzata dalla Cooperativa Città Alta.

Malattia e rinunce

Livia è una ragazzina quando le viene diagnosticata una miopia precoce, i cui peggioramenti scandiscono, con ritmo impietoso, il procedere della «Prima parte» della narrazione: «-4»; «-6»; «-8 diottrie». Si arriva nell’area della «miopia elevata», e da lì a una diagnosi che fa paura: retinite pigmentosa, malattia che brucia i fotorecettori della retina, finché si vedono solo ombre. «Il romanzo non è la storia di una malattia - spiega la scrittrice - ma della paura della perdita di un senso-guida della vita», fondamentale nel nostro rapportarci con il mondo. Livia è una ragazzina che «parte da una situazione del tutto normale: famiglia medio-borghese, bella, brava negli sport. Poi scopre che ha ereditato dal nonno, rimasto cieco dopo 50 anni di miopia elevata, la retinite pigmentosa». È una ragazzina, insomma, che «ha tante cose a cui dover rinunciare».

Lo sguardo degli altri

La sua difesa è «aggrapparsi all’adolescenza, agli step che devi fare, ai rituali cui devi sottostare in quel periodo della vita», pena strascichi futuri indesiderabili. «Un periodo in cui cominciamo a percepire lo sguardo gli altri su di noi. E lo sguardo dei maschi non può non entrare in modo importante nella sua vita. Lei si aggrappa a questi rituali per seminare la malattia. Un modo per far sì che il mondo intorno a lei non scompaia». Molta determinazione la scrittrice ha messo nell’evitare «la beatificazione della vittima». Livia ha il suo carattere anche spigoloso, aspro, non sempre simpatico. «Il modo migliore per rendere giustizia a certe categorie svantaggiate è fuggire il santino: sono comunque categorie immerse nel mondo. Ci sono persone fastidiose, non buone, anche fra le vittime. Ho messo Livia davanti a una scelta: vittimizzarsi o voler mantenere su di sé lo sguardo degli altri». Lei ha svelto la seconda. «Cerca di essere percepita come intera, come sana».

Riabilitazione e adattamento

Se non c’è vittimismo, non c’è nemmeno pietismo: «senso di cura», piuttosto. «Si parla dei modi in cui ci si prende cura di qualcuno. E c’è egoismo anche in questo: il bisogno dell’altro diventa la fenditura traverso la quale si pensa di ricevere il suo affetto». La frequentazione del Centro sant’Alessio di Roma, che si occupa di riabilitazione di persone con disabilità visiva, e in particolare di Marco, tutor della struttura, ha fatto capire alla Olivo che «il cervello si abitua a quello che vediamo, anche ad una malattia progressiva che ti porta a vedere solo ombre»: fatto decisivo nello svolgimento della narrazione. Anche Livia si adatta progressivamente alla sua condizione, e il romanzo è anche, nella sua parte forse migliore, la storia di questo progressivo adattamento a ciò che, altrimenti, sembrerebbe impossibile sopportare.

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