Italia 1945: Pennacchi e il racconto necessario del padre «ritrovato»

TEATRO. Nello spettacolo «Appunti sulla guerra civile» - l’8 maggio al Donizetti - l’attore e regista veneto ricostruisce la vicenda del padre, partigiano e deportato in un campo di concentramento. «Mi sono misurato con un pezzo di storia con cui ancora adesso non abbiamo fatto i conti».

«Domenica 6 maggio 1945, alle 10 e tre quarti, mio padre, nome di battaglia Bepi, mio zio Vladimiro e il tenente degli alpini Stelio Luconi - medaglia d’oro al valor militare in Russia - scoprono di aver vinto la Seconda Guerra Mondiale». Lo racconta Andrea Pennacchi in questo lavoro intitolato «Mio padre – Appunti sulla guerra civile» in scena al Teatro Donizetti mercoledì 8 maggio (ore 20.30), presentato nell’ambito della sezione Storia, Teatro e Società, della Fondazione Teatro Donizetti. Scritto e interpretato da Andrea Pennacchi, musiche di Giorgio Gobbo, Gianluca Segato e Graziano Colella, produzione Teatro Boxer.

Andrea Pennacchi, chi era tuo padre?

«Era tante cose: quella che racconto io è la mia riscoperta della sua esperienza come partigiano e poi come internato in campo di concentramento».

Nella vita che cosa faceva?

«Era tipografo, un mestiere di cui andava molto fiero: stampatore a mano».

Nel 1944 cosa succede?

«Si unisce a un gruppo di armate partigiane e comincia a fare atti di sabotaggio e di insurrezione».

In Veneto?

«Sì, siamo a Padova. In seguito ad una soffiata però viene catturato e portato nel campo di concentramento austriaco di Ebensee dove inizia la parte più terribile della sua esperienza che ho cercato di riassumere anche perché è difficile da raccontare».

Molti protagonisti di quegli avvenimenti infatti, una volta tornati a casa non ne hanno mai voluto parlare o ne hanno parlato pochissimo.

«Le poche cose che poteva raccontare erano diciamo quelle positive per cui ho fatto molta fatica a ricostruire la sua storia».

È stato quindi anche un lungo lavoro di ricerca.

«Sì, la fortuna ha voluto che sia io che mio padre eravamo innamorati dei libri per cui avevamo un sacco di libri sull’argomento e uno in particolare era proprio sul campo di concentramento dove era stato rinchiuso mio padre. Molto tempo dopo ho ritrovato una lettera in cui il ricercatore austriaco che aveva scritto quel libro aveva chiesto anche la testimonianza di mio padre. E altra fortuna enorme che mio zio che aveva come nome di battaglia “Vladimiro” è ancora vivo e anche grazie ai suoi ricordi e ai documenti che aveva depositato mio padre, sono riuscito a ricostruire la storia ».

Ricostruendo la figura di tuo padre che cosa hai scoperto di lui?

«Tante cose, perché ci sono cose che uno dà un po’ per scontate, perché è la storia della tua famiglia, fa talmente parte della memoria collettiva di tutta la famiglia per cui non avevo chiesto mai a mio padre delle cose precise. Io vivevo in una specie di bolla perché, per esempio, una cosa che non sapevo che anche la famiglia di mia madre era composta da partigiani, mio nonno è stato ucciso dai tedeschi, tanto che credevo che tutte le famiglie italiane fossero così e invece ho scoperto che non era così e mi sono misurato con un pezzo di storia con cui ancora adesso non abbiamo fatto i conti».

Infatti il sottotitolo dello spettacolo è «appunti sulla guerra civile».

«Esattamente, fino a poco tempo fa dire “guerra civile” invece di “guerra di liberazione” creava dei grossi problemi, non solo a me ma anche a storici affermati».

Ricordiamo almeno il saggio di Claudio Pavone «Una guerra civile – saggio storico sulla moralità nella Resistenza».

«Esatto, io stesso mi sono trovata litigare con qualcuno mentre cercavo solamente di guardare in faccia la realtà».

Senza forzature sull’attualità però ci sembra di poter dire che, anche se il termine è un po’ abusato, questo sia uno spettacolo “necessario”.

«Io lo credo, perché altrimenti non lo racconterei. Se fosse solo una mia personale ricerca su mio padre, sarebbe un problema mio, ma credo che quello che è venuto fuori da questa ricerca deve essere ascoltato in questo momento perché ci pone di fronte alle enormi sofferenze causate dal regime, ma anche a tutte le cose che abbiamo eluso, di cui non abbiamo parlato in nome della pacificazione: è necessario».

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