Commuove il monologo di Pennacchi sul padre sopravvissuto al lager nazista

IL RACCONTO. Standing ovation al Donizetti per l’attore e le parole, potenti e strazianti, di «Mio padre - Appunti sulla guerra civile».

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Standing ovation al Donizetti per Andrea Pennacchi e il suo monologo intitolato «Mio padre – Appunti sulla guerra civile» presentato nell’ambito della sezione Storia, Teatro e Società della Stagione di Prosa della Fondazione Teatro Donizetti. Pubblico in piedi ad applaudire l’attore, che era accompagnato dai musicisti Giorgio Gobbo e Gianluca Segato, ma soprattutto le parole di un testo commovente, potente, straziante ma anche con felici momenti di ironia, come è, da sempre, nelle corde dell’attore padovano.

Ma tutto questo Andrea Pennacchi non lo sapeva: come molte delle persone che hanno subito quelle atrocità e sono sopravvissute non ne hanno mai o quasi mai parlato, men che meno in famiglia. Ed è così che Andrea apprende tutto questo, del padre partigiano, dell’internamento nel campo, solo dopo la morte del genitore

«Domenica 6 maggio 1945, alle 10 e tre quarti, mio padre, nome di battaglia Bepi, mio zio Vladimiro e il tenente degli alpini Stelio Luconi - medaglia d’oro al valor militare in Russia - scoprono di aver vinto la Seconda Guerra Mondiale». Comincia così il racconto di Andrea Pennacchi che ricostruisce la figura del padre Valerio che a diciassette anni si unisce ad una brigata partigiana di Padova prendendo il nome di battaglia di Bepi. Fatto, questo del nome, che dà modo a Pennacchi di costruire un simpatico siparietto umoristico. Poi però non si ride più quando il racconto ci porta nel campo di lavoro austriaco di Ebensee dove il padre di Andrea e gli altri suoi compagni sono stati deportati e dove vivranno tra il 1944 e il ’45. Abbiamo scritto vivranno? No, perché i protagonisti di questo racconto si sentono già dei morti che camminano, nessuno di loro, anche Valerio «Bepi» Pennacchi, pensava che sarebbe sopravvissuto a quel regime di lavoro, malnutrizione, malattie, percosse, freddo, pioggia cui erano sottoposti. Ma tutto questo Andrea Pennacchi non lo sapeva: come molte delle persone che hanno subito quelle atrocità e sono sopravvissute non ne hanno mai o quasi mai parlato, men che meno in famiglia. Ed è così che Andrea apprende tutto questo, del padre partigiano, dell’internamento nel campo, solo dopo la morte del genitore. E si mette alla ricerca di un passato che sembrava sepolto e invece non passa, non passa mai: si chiama «fare memoria», anche se è purtroppo diventata una di quelle espressioni che l’uso ha reso un po’ sbiadita. Non di meno resta una di quelle «necessarie» se vogliamo, davvero, che la storia non si ripeta.

E su quella pagina di storia, su quella «guerra civile» si può, anzi, verrebbe da dire, si deve tornare a ragionare e lo si può fare partendo forse proprio da storie personali, formidabili come questa, quella di un ragazzo di Padova, nome di battaglia: Bepi!

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