Al Pianistico un volo tra le glorie di Vienna

FESTIVAL AL VIA. La 61 a edizione omaggia la città e i compositori. Il direttore Orizio: qui da noi talenti divenuti fenomeni internazionali, siamo come l’Atalanta.

Apre i battenti il prossimo 26 aprile al Teatro Donizetti di Bergamo e il 27 al Teatro Grande di Brescia, si chiude il 15 giugno. A Bergamo diciannove concerti, dodici al Donizetti altri sei nei «dintorni» e un concerto spettacolo in Sant’Agostino. Altrettanti a Brescia.

Questo è il 61° Festival Pianistico internazionale di Brescia e Bergamo. Il titolo «Vienna Skyline, omaggio ad Anton Bruckner» racchiude un mondo. Al direttore artistico Pier Carlo Orizio chiediamo come è nato il nuovo tema. «Abbiamo fatto due edizioni sul ‘900, un Novecento “alternativo”, opposto delle avanguardie, con la Scuola di Vienna e quel che ne è disceso, fino a Nono e agli altri. Ho cercato di spiegare come questo abbia portato ad uno scontro col pubblico: la musica da una parte, e un pubblico che non l’ha seguita. Quest’anno quindi l’abbiamo dedicato alla città che apparentemente potrebbe essere la più tradizionale, veramente capitale della musica. Sono tornato ora da Vienna ed è una città dove si fa musica ovunque, con le sale tra le più belle del mondo. Ma Vienna è anche la città dove è nata la crisi della musica di Schoenberg e della dodecafonica. Abbiamo “programmi manifesto”, chiamiamoli così. Con Mozart-Buckner nell’inaugurazione ed Emmanuel Ax con Beethoven-Schoenberg si presentano queste due facce viennesi. Schoenberg non è visto come il rivoluzionario che ha aperto le strade, ma come conclusione del ciclo».

Come mai proprio Vienna? C’è un motivo particolare?

«Ho controllato quante volte in 60 anni abbiamo dedicato un festival a questo tema, per evitare un’eventuale ripetizione: nessuna. C’è stato Mozart a Vienna, la seconda scuola di Vienna. Si va da Haydn fino a Friedrich Gulda, 250 anni di storia, un excursus molto ampio. Un festival monografico, su Brahms, su Mozart, oggi non è pensabile, occorre varietà. In realtà manca ancora Friedrich Gulda, che apre nuove strade completamente diverse: a 16 anni suonava le 32 Sonate di Beethoven. Tra le varie scelte nella sua carriera, si è spinto verso il jazz, non Schoenberg. Quando gli chiesero chi era la più grande cantante del momento disse Whitney Houston. La biglietteria dice che stiamo avendo un grande successo. Si capisce che il pubblico voglia riconoscersi nella musica che andrà ad ascoltare, serve proporre il nuovo, senza sottolineare troppo la novità, che non spaventi. Il riscontro di pubblico è importante».

Perchè skyline? È la prima volta che il festival sceglie una tale suggestione…

«Ho immaginato chi sta sul duomo di Santo Stefano di Vienna nel ’700. Può vedere cosa succede a Vienna fino alla fine del XX secolo. Un orizzonte molto ampio, urbanistico, con le mura da abbattere e la costruzione del ring, e la conseguente straordinaria rinascita urbanistica. Ciò che succede nell’urbanistica ha conseguenze nel mondo musicale, culturale e artistico. Vediamo quanto Vienna sia attrattiva per chi non è viennese, come Mozart - “Una città più importante e necessaria non c’è” scriveva -, come Beethoven, Bruckner, Brahms… Vienna mostra quanto sia importante l’ospitalità, l’esser accogliente».

«La mia idea è che ci sia sempre una nuova contemporaneità, ossia le tante cose che stanno succedendo nel mondo: da noi arrivano un po’ dopo. All’estero, hanno capito che si riempiono le sale con un repertorio nuovo. Ma il pubblico una volta venuto al concerto, deve esser convinto perché poi ci torni… Non si possono sbagliare i colpi»

Per il Festival non nuova l’esplorazione della contemporaneità (Bernstein, Tan Dun, Arvo Part). È un punto ineludibile delle nuove programmazioni?

«Vorrei che fosse così ineludibile, poi si fanno ovviamente i conti con le possibilità del momento e con il fatto che la musica ha bisogno di concretezza: vuoi fare il Concerto di Schoenberg e non trovi l’interprete per farlo. La mia idea è che ci sia sempre una nuova contemporaneità, ossia le tante cose che stanno succedendo nel mondo: da noi arrivano un po’ dopo. All’estero, hanno capito che si riempiono le sale con un repertorio nuovo. Ma il pubblico una volta venuto al concerto, deve esser convinto perché poi ci torni… Non si possono sbagliare i colpi: a Los Angeles fanno il concerto di Nyman e altri contemporanei con Yuja Wang. Sanno colpire il pubblico in modo evidente, col virtuosismo, con la melodia, con richiami etnici… È quello che una volta si sarebbe detto ammiccare al pubblico. Oggi il compositore torna a considerare che il successo di pubblico sia fondamentale, non accessorio».

Quale la sfida più ardua? E quale la soddisfazione maggiore?

«Facendo un festival dedicato al pianoforte la mia prima passione, prima ancora dell’orchestra, il fatto di aver portato al festival dei pianisti, giovani talenti che poi si sono rivelati fenomeni internazionali prima degli altri, questo è forse tuttora, la prima grande soddisfazione. Pianisti ce ne son centinaia, non decine. Yuya Wang è stata a Bergamo quando nessuno sapeva chi fosse. Malofeev, con la nostre orchestre, non lo conosceva nessuno. Si vedeva che aveva un carisma folgorante: dopo la sconfitta al Caikovskij poteva perdersi, sta facendo una grandissima carriera. Qualche anno prima abbiamo creduto in Volodos. Il livello dei pianisti è incredibilmente alto. Federico Colli dice che in 10 anni il livello si è alzato ulteriormente e di tantissimo. Il problema vero è immaginarsi il pianista che faccia un’ora e mezzo di recital da solo. E se capita che sbagli il programma, la responsabilità è mia. È come prendere giocatori non di primissimo piano e costruire attorno una squadra. Dopo di ché ognuno ha la sua dimensione. Noi siamo come l’Atalanta, l’Inter è la Scala, con mezzi dieci volte superiori. Il pubblico della Scala non accetterebbe interpreti in stile Atalanta».

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