Quel saluto fascista e i rischi del silenzio

ITALIA. Quest’anno è scoppiato il «caso Acca Larentia». Sia perché gira sui social un video di centinaia di braccia tese nel saluto fascista, sia perché a Palazzo Chigi siede Giorgia Meloni che sull’episodio non ha aperto bocca.

Da molti anni il 7 gennaio, i neofascisti romani si radunano di fronte alla casa dell’estrema periferia romana in cui tre giovani militanti missini nel 1978 vennero fatti bruciare da un commando di Lotta Continua. Per quei tre ragazzi uccisi (si chiamavano Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta, Stefano Ricchioni) non sono mai stati trovati gli assassini - alcuni militanti di estrema sinistra vennero prima accusati e poi prosciolti - ma, nel clima della riappacificazione nazionale, da qualche tempo partecipano alle commemorazioni anche esponenti istituzionali non di destra: il Comune di Roma quest’anno era rappresentato dall’assessore alla Cultura Miguel Gotor (ex consigliere di Bersani e deputato Pd). Cerimonie ufficiali che nulla hanno a che vedere con quelle delle teste rasate in camicia preferibilmente nera a loro volta ben distinte dalle manifestazioni organizzate prima da Alleanza Nazionale e ora da Fratelli d’Italia: «Noi facciamo le nostre cose e poi andiamo via» diceva ieri il vice presidente della Camera Fabio Rampelli, un tempo mentore e oggi avversario di Giorgia Meloni, come dire: noi con il saluto romano non c’entriamo niente.

Ci pensa semmai Casa Pound - nella Capitale particolarmente organizzata - a mobilitarsi per mettere in scena lo spettacolo: file di militanti ordinate militarmente che per tre volte, alzando il braccio, urlano «Presente!» al nome dei camerati uccisi - secondo il rituale che risale al fascismo repubblichino e alla X MAS di Junio Valerio Borghese. Quest’anno la cosa è particolarmente riuscita, come dimostra il video, tanto da scatenare la polemica delle opposizioni: il Pd ha annunciato interrogazioni al governo (ministri dell’Interno e della Giustizia), il M5S ha presentato un esposto alla Procura mentre parole molto nette sono state pronunciate da tutti i rami delle minoranze parlamentari: Renzi, Calenda, Magi, Bonelli, ecc. Anche la Comunità ebraica romana col suo presidente Victor Fadlun ha alzato la voce. Quelli di Casa Pound hanno risposto da par loro: «Dibattito rancido».

Il punto è però che entrambi, sinistra e destra estrema, si sono rivolti polemicamente verso Giorgia Meloni: i primi deplorando che lei non abbia condannato l’accaduto avendo giurato sulla Costituzione antifascista, i secondi perché non ha difeso coloro che tuttora coltivano le radici da cui è cresciuto, volente o nolente, l’albero rigoglioso di Fratelli d’Italia (anche se Meloni a Fiuggi, all’assemblea dello «strappo» operato da Fini, c’era e stava in prima fila). Ma la presidente del Consiglio - che nel 2009, da ministra del governo Berlusconi a via Acca Larentia era andata personalmente - ha preferito tacere. Solo l’ufficio stampa di FdI ha accusato la sinistra «di ipocrisia»: «Protestate perché ora al governo c’è Giorgia». Ma è proprio questo il punto: il silenzio della leader ha finito per attirarsi le critiche dei fronti contrapposti, sia di chi le rimprovera di non deplorare sia di chi le rinfaccia di non onorare i caduti «anche suoi».

È la contraddizione in cui si trova la destra di governo tutta intenta a cercarsi uno spazio in Europa tra le forze conservatrici esenti dal sospetto di nostalgia verso il tempo che fu. La strategia comunicativa adottata - quella di estraniarsi - rischia però di non convincere i conservatori e di perdere il voto, quando c’è, della vecchia militanza nostalgica. Palazzo Chigi, quest’anno ha fatto da detonatore a polemiche che fino all’altroieri finivano, nell’indifferenza quasi generale, direttamente nelle pagine della cronaca romana dei giornali.

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