Una morte nata
dalla sua vita

Qualche settimana fa io e don Fausto ci siamo trovati da soli in attesa che arrivassero gli altri sacerdoti per la riunione mensile. «Che c’è Fausto? Mi sembri stanco…» gli avevo detto. Lui non si apriva molto: parlava sempre degli altri, dei suoi ragazzi, dei carcerati, dei poveri della stazione. Aveva come una ritrosia a lasciarsi andare, come se non volesse che qualcuno gli guardasse dentro. «Sono stanco – rispose – ma contento. Io devo vivere molto intensamente le mie giornate, se voglio star bene con me stesso.

Allora arrivo a sera soddisfatto, anche se non ce la faccio più. O forse proprio per questo».

Era la prima volta in tanti anni che don Fausto non si difendeva. Non mi obbligava a distogliere lo sguardo da lui per vedere gli altri che la sua misericordia e solidarietà metteva sempre in primo piano. In quelle parole ho colto con stupore non solo la forza e il coraggio di don Fausto, ma anche la sua debolezza; ho visto, non solo il benefattore dei poveri, ma un povero in più.

Mi è venuta in mente questa frase nei giorni del mio isolamento da quarantena, quando mi arrivavano resoconti sempre più drammatici del suo stato di salute. Lo avevano mandato a Como e le notizie filtravano con il contagocce…

Scacciavamo dal cuore il pensiero che non l’avremmo più rivisto, come sta capitando a migliaia di bergamaschi con i loro cari. Io poi mi ero convinto che non potesse morire: aveva troppi progetti per la testa e, ultimamente, come sospettando che «il tempo oramai si era fatto breve» volesse esplorare ogni eventualità e mettere a frutto ogni possibilità. Ostinatamente, fino all’ultimo, abbiamo pregato perché Dio, la Madonna e don Bepo facessero il miracolo, anzi no, che gli rendessero ciò che gli spettava di diritto: qualche anno di vita in più in cambio dei tanti anni dedicati a loro e ai poveri.

All’una e mezzo di notte di lunedì 23 marzo, don Dario chiama: «Don Fausto è spirato poco fa» non sono più riuscito a prendere sonno e neppure a pregare. Ho sentito solo un grande vuoto.

Poi d’improvviso mi è venuto in mente un frammento di Rainer Maria Rilke: «O Dio, dona a ognuno la sua morte. Una morte nata dalla sua vita». E poco a poco ho capito. Cos’ha cercato Don Fausto più di tutto nella sua vita di uomo e di prete? Ha cercato l’altro, che è il povero, l’ultimo, il giovane in disagio, il carcerato, il barbone. Li ha cercati perché in loro vedeva il volto di Dio, quel Dio che lui non ha mai smesso di cercare, da uomo di fede quale era. Ha continuato a farlo anche quando ai primi giorni di marzo una febbre fastidiosa ha cominciato a perseguitarlo: è dovuto crollare per convincersi a mettersi a letto e quando ha saputo che in carcere era in atto una rivolta, voleva a tutti i costi andarci per sedare gli animi. Sono stati giorni fatali che forse hanno fatto la differenza tra la vita e la morte. Ma la morte aveva già messo radici nella sua vita ed è fiorita come ultima, estrema e splendida testimonianza di fedeltà a Dio e di amore al prossimo. Fausto è vissuto con i poveri e per i poveri e poco a poco ha imparato ad essere povero come loro.

Il Signore gli ha dato la morte da Coronavirus che ai nostri occhi è la peggiore, ma che ai suoi occhi divini è il coronamento di tutta la sua vita. In meno di un anno il Signore ci ha portato via i nostri due preti di punta, i migliori: don Fausto Resmini e don Roberto Pennati. Siamo rimasti uno sparuto gruppo di sacerdoti, ma anche così sappiamo che «Dio non toglie mai una gioia ai suoi figli, se non per prepararne una più grande» (Promessi Sposi). E siamo certi che con loro due lassù in Paradiso, il Patronato continuerà ad essere in buone mani.

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