Meno Stato, più mercato
Lo slogan ha fallito

«Si ricordi che il mercato, senza regole, è come il far west», mi ammonì alcuni decenni fa Piero Bassetti, una delle personalità più eminenti del nostro Paese. Uomo proveniente dal mondo imprenditoriale, che ha dedicato (e dedica) la sua operosa vita al tentativo di raccordare «Impresa e Stato», come si intitola la prestigiosa rivista da lui fondata e diretta. L’osservazione calza perfettamente a proposito della vicenda che riguarda la società Autostrade per l’Italia, nuovamente sotto accusa per le paurose carenze di manutenzione delle arterie ad essa concesse in gestione dallo Stato. Dall’inchiesta emerge il desolante quadro di un’azienda i cui vertici erano interessati soltanto a massimizzare gli introiti, a distribuire dividendi ai propri azionisti, lucrando sui risparmi nelle manutenzioni. Con la conseguenza dei rischi che tali scelte comportavano per gli utenti. Non è esagerato concluderne che il crollo del ponte Morandi non sia altro che la punta di un iceberg; altri disastri erano e sono possibili, se non si avvia con celerità e rigore il ripristino di un assiduo controllo sull’intera rete autostradale.

È buffo pensare che il nome dell’azienda «autostrade per l’Italia» sia quasi uno sberleffo per la collettività. L’azienda non guardava affatto al Paese, ma soltanto al suo profitto. Evidentemente tale sconcio è stato perpetrato con la collaborazione dei poteri pubblici, tanto da parte della politica quanto della burocrazia. Contratti di servizio sbilanciati a vantaggio del gestore, quasi totale inesistenza di controlli sugli obblighi di manutenzione, tolleranza verso gli abusi nelle tariffe. La gestione di pubblici servizi affidata a privati ha preso piede in Italia – come in tante altre parti del mondo – per due principali ragioni: la scadente qualità delle prestazioni, la convinzione che la concorrenza (elemento tipico del mercato) fosse in grado di produrre miglioramento nell’erogazione del servizio e, nel contempo, consentire legittimi profitti agli imprenditori. Tale rosea previsione si è scontrata con alcuni fattori. In primo luogo la naturale tendenza delle imprese private a «fare cartello», evitando di fatto una «reale concorrenza», e il prodursi di oligopoli, se non addirittura di monopoli privati. Fenomeno che ha assunto proporzioni gigantesche nell’economia globalizzata, la quale piuttosto che alimentare sviluppo ha determinato poderose e crescenti ineguaglianze.

Il pernicioso slogan degli anni ’80 «meno Stato, più mercato» dava per assodato che le regole pubblicistiche fossero un inutile vincolo alla libertà d’impresa, una palla al piede dello sviluppo economico. Tale impostazione si è rivelata un sostanziale fallimento se intesa come strumento di sviluppo socialmente equilibrato, approdando piuttosto alla sponda opposta: diseguaglianze sempre più laceranti tra un manipolo di «paperoni» e un’enorme massa di donne e uomini alle prese con le angustie della vita quotidiana.

Negli anni ’70 Giorgio Bocca, commentando un clamoroso caso di corruzione, faceva notare che in esso erano implicati non soltanto alcuni grandi magnati e alcuni boiardi di Stato, ma anche modesti impiegati pubblici e dipendenti d’azienda. Ne usciva l’immagine di un Paese nel quale troppi erano disposti a corrompere e farsi corrompere, o anche soltanto «chiudere un occhio» di fronte a palesi violazioni delle leggi. Un «paese illegale» che conviveva con il «paese legale», fatto di persone oneste, tanto nelle istituzioni quanto nel mondo privato. Un equilibrio già allora precario, rispetto al quale oggi dobbiamo registrare un pericoloso sbilanciamento: un’Italia in cui l’onestà fatica a contrastare la dilagante tendenza al tornaconto personale.

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