L’8 Settembre di un italiano qualsiasi 80 anni fa

LA MEMORIA. Ottant’anni fa. L’8 settembre 1943 veniva reso pubblico l’armistizio, firmato cinque giorni prima dal governo Badoglio a Cassabile (Siracusa). L’Italia si arrendeva senza condizioni agli Alleati. La Germania di Hitler ci invadeva.

Il re lasciava Roma e fuggiva a Brindisi. Nel Paese allo sbando iniziava la guerra civile di Liberazione dal nazifascismo. Riproponiamo di seguito il testo scritto dal collega Pino Capellini nel 2000. È la Storia raccontata da chi l’ha vissuta dal basso, in attesa di ordini che non arrivavano.

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C’è 8 settembre e 8 settembre. L’8 settembre 1943: di chi – il re, il suo «entourage», gli alti gradi delle forze armate – quel giorno se la squagliò, e di chi – migliaia, milioni di italiani – lo visse sulla propria pelle, in balia di un ex alleato feroce e crudele. Voglio raccontare la storia di un uomo, di un italiano qualsiasi, e di quale fu per lui l’8 settembre di 57 anni fa. Quel giorno indossava la divisa di caporalmaggiore e comandava una decina di uomini in uno dei forti, residuo ottocentesco, attorno a Verona.

Era una giornata come altre. Nessun ordine o qualche informazione su quello che stava accadendo, nemmeno attraverso «radioscarpa». Solo a mezzogiorno si accorse che qualcosa non andava. La motocarrozzetta che portava il bidone del rancio saltò l’appuntamento. Prese il telefono a manovella e chiamò la caserma dalla quale dipendeva. Niente. Verona era muta. Ripetè il tentativo più volte, sempre con lo stesso esito. A pomeriggio inoltrato finalmente qualcuno rispose: ma era una ruvida voce in tedesco che sbraitò qualcosa. Il caporalmaggiore ai suoi soldati, che gli chiedevano lumi, rispose che l’unica cosa da fare era di restare lì, come da ordini ricevuti.

A dissipare ogni dubbio arrivò un camion dal quale balzarono a terra dei militari tedeschi: armi spianate, in pochi minuti disarmarono quello spaurito gruppetto di soldati affamati e stanchi. Furono chiusi in una stanza e guardati a vista fino al giorno dopo, quando li trasportarono alla caserma di Montorio Veronese. Era grande come un quartiere e nei cortili c’erano già ammassati migliaia di militari italiani; altri ne arrivavano in continuazione. Fedele alla consegna fino al giorno prima, in quel momento il caporalmaggiore decise che sarebbe fuggito.

Tra quella folla spaurita gli riuscì di scovare un soldato che nella vita di tutti i giorni aveva fatto il muratore e aveva lavorato nella caserma a sistemare le fognature. Lui le conosceva. Aprirono il chiusino del condotto principale, grande tanto che ci poteva stare un uomo in piedi. I prigionieri incominciarono a calarsi. Arrivò il turno del caporalmaggiore e si mise a correre nell’acqua maleodorante. Passò forse una decina di minuti, poi i tedeschi scoprirono il trucco e incominciarono a sparare nella fogna. Lui continuò a correre scavalcando i corpi di commilitoni colpiti a morte o feriti.

Quando uscì dal condotto si trovò tra i campi di un paese dal nome gentile, Pescantina. Lo aiutarono i contadini: gli tolsero i panni militari e gli diedero una camicia e un paio di pantalonacci. E continuò la sua fuga. Ma questa è un’altra storia. Quell’uomo, mite e buono, non amava raccontare la sua drammatica storia. Le poche volte che lo fece, fu con ritrosia, intercalando ogni tanto con un «capisci», come se volesse giustificarsi per il fatto di aver lasciato nell’inferno della fognatura amici e compaesani. Non serbava rancore. Ma non perdonò mai il fuggi fuggi di Brindisi. Lui, modesto soldato, la cui vita era stata più di doveri che di diritti, aveva giurato fedeltà al re e all’Italia ed era rimasto al suo posto, loro invece erano scappati. Quell’uomo era mio padre.

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