Il caso Cesa mette a rischio il governo
Servirebbe un ricucitore

l «caso Cesa» piomba sulla situazione politica complicandola ulteriormente: l’indagine per fatti di ‘ndrangheta sul segretario ora dimissionario dell’Udc rende impossibile il tentativo di Conte di attrarre i centristi nell’area della maggioranza. Non si parla più del rifiuto di Cesa ad allontanarsi dal centrodestra (da cui aveva avuto rassicurazioni sui posti in lista alle prossime elezioni) ma piuttosto della porta sbarrata dai Cinquestelle a qualunque rapporto con l’Udc: la situazione si è rovesciata. Questo rende ancor più fragile il governo presieduto da Giuseppe Conte. Che deve in questo fine settimana riuscire ad organizzare le truppe per poter affrontare, mercoledì e giovedì, il primo appuntamento parlamentare in cui sarà necessaria la maggioranza assoluta per far passare un testo del governo.

Si tratta della relazione sullo stato dell’amministrazione giudiziaria presentata dal Guardasigilli Bonafede: Italia Viva ha già annunciato voto contrario e, se si sommano i 16 senatori renziani ai 140 colleghi appartenenti all’opposizione, si arriva alla quota di 156, esattamente quella raggiunta martedì scorso da Conte quando ha chiesto la fiducia dell’assemblea di palazzo Madama. Se si considera che persino tra qualche «volenteroso» c’è intenzione di votare contro Bonafede – capo della delegazione grillina al governo, è bene non dimenticarlo – è matematicamente sicuro che il governo la prossima settimana «andrà sotto», e così stando le cose sarà solo la prima di una serie di bocciature.

Una situazione insostenibile. Se l’operazione arruolamento non cammina, il governo non regge neanche due settimane e allora si apre davvero la strada delle elezioni anticipate. Ormai anche i democratici cominciano a dichiararlo: si avvicinano le urne, andava ripetendo ieri Andrea Orlando, vicesegretario di Zingaretti. Che lo facciano per tattica – per spaventare i parlamentari, specie renziani, timorosi di non essere rieletti – o perché lo temono davvero, è un fatto che l’ipotesi estrema ormai è in campo. Proprio perché la baldanzosità con cui si è cominciato a raccogliere voti a favore del governo alternativi a Renzi si è depressa con il magro risultato di martedì, si è ulteriormente ridotta nei giorni successivi quando all’ufficio reclute di Palazzo Chigi non si è presentato quasi nessuno, e infine ha ricevuto la mazzata finale quando è arrivata la notizia dell’indagine di Catanzaro e del coinvolgimento di Cesa con il quale erano in corso dei «colloqui». Certo, si vocifera di altri renziani in dissenso col leader che potrebbero andarsene (ma verso il Pd, non in un gruppo autonomo come si vorrebbe) come di un paio di berlusconiani sofferenti. Ma i numeri non tornano ugualmente. Ieri Bruno Tabacci – che alla Camera ha proposto il suo Centro democratico come la casa dei responsabili – ha suggerito a Di Maio e a Conte di aprire una crisi formale: dimissioni, consultazioni, trattative, ampio rimpasto e poi si vede il giudizio parlamentare. È una prospettiva che Conte, non fidandosi di nessuno, non ha mai voluto prendere in considerazione sperando di rimanere in sella e di cavarsela con un dibattito e una fiducia ancorché striminzita. Ma ormai sembra di capire che senza una vera trattativa in campo aperto la maggioranza non si ricompone. Anche perché Pd e M5S non vogliono neanche sentir parlare di provare a ricucire con Renzi: la strada è chiusa, dicono in coro proprio mentre è Renzi a riproporsi come possibile interlocutore (ma lo fa soprattutto per calmare i più critici tra i suoi).

Quando in politica la realtà si frantuma in troppe variabili e in una battaglia di veti incrociati, servirebbe un «ricucitore», un leader capace di fare la sintesi e trovare l’accordo con tutti. Finora si è pensato che l’unico in grado di assolvere questo compito fosse Conte: ora però in parecchi cominciano a ricredersi.

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