Michele, la sfida a Ginevra
nel team del Cern

Michele Caldara Ingegnere, in Svizzera con la famiglia. Progetta un macchinario per la terapia protonica contro i tumori per Adam, uno spin-off dell’Organizzazione europea.
Quando gli svizzeri hanno scoperto quello che, giovanissimo, aveva già realizzato in Italia, lo hanno chiamato a lavorare a Ginevra, dove vive dal 2017 insieme alla sua famiglia. Michele Caldara ha 44 anni, è nato a Bergamo ed è uno degli ingegneri che tra il 2002 e il 2010 hanno lavorato alla realizzazione del sincotrone, uno degli apparecchi medicali più avanzati al mondo per la cura dei tumori.

È una macchina in dotazione alla Fondazione Cnao (Centro nazionale adroterapia oncologica) di Pavia, frutto di studi e ricerche durati anni, ed è l’unica in Italia capace di estrarre dall’atomo anche gli ioni carbonio, che sono le particelle più potenti per il trattamento dei tumori resistenti alla tradizionale radioterapia o non operabili. Oggi alla Adam di Ginevra, uno spin-off del Cern, Michele Caldara fa parte di un ristretto pool di ricercatori incaricato di costruire un macchinario simile, più compatto, in grado di utilizzare la terapia protonica (utilizzando cioè i protoni dell’atomo al posto dei raggi X), sempre per la cura dei tumori. «Stiamo sviluppando una macchina innovativa, attraverso un grande lavoro di ricerca e sviluppo.

La prima sarà installata presto in Inghilterra; il vantaggio è che si tratta di un macchinario più piccolo, che consente una perdita minore di radiazioni e che può essere installato anche in ospedali già esistenti. In Italia i centri che utilizzano la terapia protonica sono soltanto due: queste macchine sono costose e complesse, ce ne vorrebbero di più, e riuscire a costruirne di più compatte, potrà contribuire al loro sviluppo, oltre che alla cura dalle malattie». Michele Caldara non può certo definirsi un «cervello in fuga» dall’Italia per necessità, tutt’ altro: subito dopo la laurea in Ingegneria all’Università di Pavia e la lunga permanenza al Centro nazionale adroterapia oncologica, è tornato a casa, dove ha iniziato a lavorare alla facoltà di Ingegneria di Dalmine come ricercatore.

Nel 2015, ecco presentarsi l’opportunità della vita, impossibile da rifiutare, nonostante un buon lavoro a due passi da casa e una famiglia che iniziava a crescere. «Mi hanno offerto un’assunzione - racconta Michele - per lavorare a un progetto per cui già collaboravo sul tema della protonterapia, in questa azienda di Ginevra nata all’interno del Cern come “technology transfer”, una realtà nuova, incaricata di sfruttare le tecnologie sviluppate dal laboratorio di fisica delle particelle, per altri obiettivi, in questo caso nel campo della medicina». Un treno di quelli che non passano di frequente nella vita, neppure in quella di un ingegnere giovane e preparato. «Pur con la famiglia installata a Bergamo - Giulia, mia moglie, è un medico e lavorava all’ospedale Papa Giovanni XXIII nell’équipe del professor Fagiuoli - ho deciso di accettare - dice ancora Michele -. Non è stata una scelta facile. Per un anno ho fatto il pendolare, cercavo di tornare per weekend lunghi e di lavorare almeno un giorno dall’Italia. Finché non abbiamo deciso di trasferirci».

Ed è un giorno che non si può dimenticare, quello del viaggio che ti porta, forse per sempre, lontano dalla tua terra. «Era il 2 gennaio 2017 - ricorda Michele -. Siamo partiti con due macchine cariche di valigie e due figli. La nostra avventura è iniziata così. Giulia per un anno si è dedicata a studiare la lingua e adesso lavora nell’ospedale cantonale universitario di Ginevra, il più importante della zona. Trovare un asilo nido per Luca, che oggi ha 6 anni, non è stato facile. Ma ora sono lui e Marta, 9 anni, che ci correggono quando parliamo in francese». La mancanza della famiglia d’origine è il sentimento che accomuna Michele a tutti coloro che per lavoro vivono lontano: «Non poter contare sui nonni, anche per i miei figli, è stato difficile - ammette - per questo cerchiamo di essere presenti il più possibile io e mia moglie. Ad ogni modo, abbiamo trovato tanta solidarietà tra i nostri vicini. Il livello di integrazione è altissimo, in città vive il 40% di persone che arrivano da fuori: nella mia azienda sono presenti 26 nazionalità - anche se di recente abbiamo assunto un ragazzo di Bergamo, che è stato un mio studente all’università -. Conoscere tutte le culture del mondo è importante, s’ impara ad avere rispetto per tutti, senza perdere la propria identità».

E nonostante non si riesca a trovare - nella città che è sede di tante organizzazioni internazionali - neppure un bar capace di servire un caffè che possa definirsi “decente”, vivere a Ginevra non è poi così male, secondo Michele: «La presenza dell’acqua è importante - racconta - qui c’è il lago e nasce il Rodano: d’estate la gente gira in costume, fa il bagno in città e nessuno si azzarda a giudicare gli altri per come vanno vestiti per strada. Anche noi ne approfittiamo, ogni tanto, per un picnic in spiaggia, magari la sera. Sembra di essere in vacanza e ti aiuta a staccare dai problemi». Del futuro non c’è certezza, ma quello di Michele Caldara e della sua famiglia sembra essere segnato: «Stiamo cercando di costruirlo qui, anche e soprattutto per dare un’opportunità in più ai nostri figli. Ma teniamo molto al fatto che mantengano forte un legame con l’Italia e con Bergamo.

In questi anni, poi, stiamo scoprendo da turisti posti che non conoscevamo. Quattro ore di macchina non sono tante e, oltre alle vacanze, cerchiamo di tornare almeno una volta ogni tre mesi, anche se in questo periodo non è facile». Già, il Covid, la pandemia che ha ristabilito le frontiere e riacutizzato le distanze. Il virus non ha risparmiato neppure la precisa e ordinata Svizzera: «I politici non sono tanto diversi da quelli italiani - assicura Michele -. Qui però hanno la capacità di pianificare e di prevedere qualsiasi scenario in anticipo. Sono molto più preparati di noi e hanno messo in campo un’organizzazione ammirevole, soprattutto a livello sanitario. Dopodiché, nonostante il mezzo lockdown in vigore in queste settimane, non c’è il divieto di stare chiusi in casa; ci si affida al buonsenso, ci sono regole molto chiare e semplici, ci sono i controlli e la gente è molto rispettosa».

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