A Paranà c’è il «Kiosco Dea»
Atalanta nel cuore dell’Argentina

Vetrina nerazzurra e la foto del Papu: la storia di Tiberio Vinante. Da Treviglio il 51enne è emigrato anni fa in Sudamerica. «Un amore che resiste anche dall’altra parte del mondo».

Quando si dice una scelta di vita. «A un certo punto – racconta Tiberio – ho deciso di mollare tutto e dare un senso completamente diverso alla mia esistenza. L’ho fatto per amore, l’ho fatto perché ne valeva la pena». Tiberio Vinante è in maniche corte mentre discorre in videochiamata da Paranà, capoluogo della provincia di Entre Rìos (500 chilometri a nord di Buenos Aires). «Qui stiamo andando verso i mesi più caldi, perché il calendario procede al contrario rispetto all’Italia. Lì da voi conservo ancora affetti famigliari e amicizie, ottimi ricordi: grazie a Facebook tengo contatti con tutti». Il suo profilo è tutto un programma: la pagina si chiama «Un bergamasco in Argentina» e sotto il titolo campeggia la foto del Papu Gomez, come dire un argentino in Bergamasca. «L’Atalanta è sempre stata la mia passione più grande e non me la scordo neppure dall’altra parte del mondo. Anche perché qua è famosissima, grazie a Caniggia, Denis, Maxi Moralez e ora il Papu Gomez».

Paesi e città non sono mancate nella storia personale di Tiberio Vinante, nato a Monza nel 1969, approdato a Treviglio poco dopo per crescerci e viverci trent’anni, prima di fare ritorno in terra di Brianza. «Io mi sento di Bergamo e Treviglio è la mia città. Lì abitano ancora i miei genitori e lì attorno, a Pagazzano e Casirate, le mie sorelle; ho studiato all’Oberdan (la «ragioneria» dei tempi, ndr) e poi, fra Castel Rozzone e Zingonia, ho lavorato per diversi anni. Insomma, le mie radici sono in quella terra, anche se mio padre è originario di Posina, in provincia di Vicenza».

Questo sembra un dettaglio, invece la svolta viene proprio da lì. Posina è un paesino di pochissime anime, svuotato in tempi remoti dall’emigrazione. «Tutte le estati della mia infanzia le ho passate lì: ci sono molto affezionato, come tutta la gente di quel posto. Su Facebook il gruppo “Posina e la sua gente” tiene in contatto chi ci vive, chi ci viveva e chi ha avuto parenti partiti da lì in passato».

Come ad esempio Daniela, professoressa di chimica, un’argentina che di cognome fa Zambon. Ha un trisnonno emigrato in Sudamerica da Posina a fine ‘800 e un giorno s’è messa a indagare sulle sue origini: così ha scoperto il paese, ha conosciuto il gruppo, ha incrociato Tiberio. «Ci siamo “incontrati” commentando alcuni post e abbiamo iniziato a parlare di ogni cosa: pian piano il rapporto s’è consolidato e ci siamo accorti che stava nascendo qualcosa. Si, ci siamo innamorati via web, a 15.000 chilometri di distanza».

Insomma, uno chiede l’amicizia ed ecco che sboccia l’amore. «Quando Daniela ha avuto modo di venire in Italia abbiamo capito che quello era il momento decisivo: si trattava di incontrarci per la prima volta e provare a immaginare un futuro insieme» ricorda Tiberio.

E quel futuro esisteva davvero. «Abbiamo trascorso alcuni giorni insieme, proprio a Posina. È stato allora che ho deciso di dare un taglio netto alla mia vita precedente e iniziarne una del tutto nuova: e il 16 aprile 2016 sono volato in Argentina, senza saperne nulla e senza conoscere la lingua. Imparare lo spagnolo castellano non è stato per nulla facile, ma ora vado orgoglioso d’esserci riuscito alla soglia dei 50 anni».

Poi c’era il problema dell’occupazione: trovarla non è semplice neppure per gli indigeni, figuriamoci per uno straniero che si esprime a fatica. «Ho lavorato un anno in un bar di Paranà, ma non è andata bene. Ho deciso di mettermi in proprio e aprire un kiosco». Il kiosco è una sorta di tabaccheria italiana, arricchita da prodotti di ogni altro genere: un po’ bar e un po’ minimarket, che da quelle parti trovi a ogni angolo di strada. Quello di Tiberio però è unico, perché il suo è il Kiosco Dea: «Sul nome non ho avuto esitazioni, ci ho messo anche un grande cartello con lo stemma dell’Atalanta». E ha così scoperto che i nerazzurri sono molto celebri fra le pampas: «Me ne rendo conto tutti i giorni, con i clienti che parlano del Papu e con le televisioni che seguono le sue imprese in Champions. Ma lo avevo capito anche appena arrivato, nel 2016: una sera, in pizzeria, il tipo dietro la cassa vede il simbolo che ho tatuato sul braccio ed esclama: Atalanta, el equipo de Caniggia!».

Causa il fuso orario (in Italia ora siamo avanti di 4 ore, ndr), Tiberio vede le partite della banda Gasp proprio mentre lavora al kiosco. «Nemmeno in periodo di Covid questi esercizi hanno avuto restrizioni: sono rimasti sempre aperti, punto di riferimento per la gente. Però a marzo, quando è arrivato il virus, io il mio l’ho chiuso per un mese, volontariamente: troppi rischi, troppa paura». Dall’Italia, in quei giorni, giungevano notizie preoccupanti e quelle in arrivo da Bergamo erano cariche d’angoscia: «La tv e Internet portavano dati e immagini inquietanti: li ho visti anch’io i camion militari che trasportavano le bare e si può immaginare come stavo, pensando ai miei genitori anziani, alle mie sorelle di cui una, per giunta, lavora in ospedale. Ogni giorno, su Facebook, un amico piangeva la perdita di una persona cara: non è stato un periodo facile, per niente, anche perché nonostante avessi contatti continui con i miei famigliari facevo fatica ad avere l’esatta percezione di quello che stava accadendo».

E adesso, purtroppo, la situazione s’è nuovamente fatta drammatica. «Da noi il lockdown proclamato a marzo non è mai ufficialmente cessato: le attività produttive vanno avanti, ma c’è poca gente per la strada. Le scuole sono chiuse, io faccio molte fotocopie in meno, ma pazienza: bisogna provare a convivere con questo virus. Qua sta arrivando l’estate e credo che chi potrà si farà un po’ di vacanza: anche il campionato di calcio è appena ricominciato, ovviamente a porte chiuse. Il futuro non dà molte prospettive, ma in qualche modo bisogna provare a prendersele».

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