Come sta cambiando il mondo del lavoro?

Il boom delle dimissioni volontarie interroga le nostre imprese. Il lavoro e l’operosità caratterizzano ancora oggi l’essere bergamaschi?

Dimissioni di massa: fuga o rinascita?

Great resignation: è il termine con cui si indica il fenomeno delle dimissioni volontarie, una delle dinamiche che evidenziano i cambiamenti in atto nel mondo del lavoro oggi. La crescita delle dimissioni si è accentuata nel post pandemia, con tanti lavoratori – soprattutto tra i giovani – sempre più attenti anche al benessere e all’equilibrio tra tempo dedicato al lavoro e alla vita privata. Ma come leggere questo fenomeno: fuga o rinascita? E per le aziende: è un fattore di crisi o un’opportunità innovativa?

Ne parliamo con Laura Ferrari, di Clusone, che attraverso la sua attività di consulente del lavoro, osserva da vicino questi cambiamenti, diffusi anche in Bergamasca, dove molte aziende – dopo la pandemia – si sono dovute riorganizzare (o hanno scelto di farlo): «Partiamo dallo smart working – ci dice Ferrari – : dopo il Covid molte aziende, soprattutto nell’ambito del terziario e impiegatizio, hanno deciso di mantenerlo e regolamentarlo, riorganizzandosi seriamente e tenendo ciò che c’era di buono, altre invece no, hanno semplicemente scelto di tornare agli assetti precedenti.
In questa fase vediamo quindi aziende che lavorano a due velocità diverse: chi ha deciso di innovarsi, e chi di stare fermo. Poi ci sono anche delle aziende più lungimiranti, che il processo innovativo lo stavano gestendo da tempo e che hanno compreso che investire nell’innovazione organizzativa e nel benessere dei lavoratori, crea valore ed è una strategia vincente».

In questo contesto si colloca il fenomeno delle dimissioni di massa...

«Sì, è un fenomeno nuovo, che ha portato molti a rivedere i propri equilibri e le proprie priorità. Potremmo dire con una maggior “ricerca della felicità” e della realizzazione personale.
Oggi ci sono più lavoratori – non tutti, non voglio generalizzare - meno disposti ad accontentarsi, e che quindi decidono di lasciare il posto di lavoro in cerca di qualcosa di meglio, o che consenta di meglio conciliare i tempi di vita e di lavoro. Per molti infatti la fase pandemica è stata un po’ una riscoperta del tempo per sé. Soprattutto per chi era abituato a lavorare tanto fuori casa e con la pandemia ha avuto l’opportunità di vivere con maggiore presenza anche le dinamiche familiari».

Ma come leggere questo fenomeno?

«È un nuovo punto di partenza, una spinta verso il positivo, verso il cambiamento, che richiede di rivedere le politiche di gestione del lavoro, le politiche retributive e organizzative con un’attenzione maggiore alla “retention” dei talenti a lungo termine. Chiede di investire di più sui dipendenti, anche per fare in modo che questi rimangano in azienda. È un aspetto che prima si dava spesso per scontato, mentre ora, da parte degli imprenditori, si inizia a ragionare maggiormente su questi aspetti».

Può farmi qualche esempio?

«Al di là delle questioni economiche e retributive, gli imprenditori cercano ad esempio di lavorare su politiche di flessibilità. Ovviamente non tutti, ma alcuni cercano di capire in che modo poter riorganizzare gli orari del lavoro, gestire anche il lavoro a distanza, in quali giorni della settimana consentire un po’ più di libertà... È ovvio che questo porta ad un grande sforzo organizzativo da parte dell’azienda perché vuol dire riorganizzare completamente il modo di lavorare, strutturato più per obiettivi che per orario.
E questa è una grande rivoluzione, ma anche la sfida del mondo del lavoro contemporaneo».

Queste novità avvengono in qualche settore particolare?

Avvengono in realtà laddove la testa dell’imprenditore o del professionista che lo assiste inizia a ragionare anche sull’importanza di questi fenomeni. Non solo nelle grandi aziende. Anche nelle piccole imprese (dove magari perdere una persona vuol dire perdere una grossa fetta del proprio personale) noto un’attenzione crescente agli aspetti formativi o a ciò che può portare ad una gratificazione maggiore per i propri dipendenti».

Dove si coglie di più il fenomeno delle dimissioni?

«Le ragioni alla base di tale scelta sono varie. Le ritroviamo certamente tra i più giovani, o in chi vive l’esigenza della conciliazione vita-lavoro, anche legata alla genitorialità, ma non solo. È un fenomeno trasversale a tutti i settori: forse di più in quello ricettivo e della ristorazione, che tende a impegnare molto nei momenti di festa, nei fine settimana (e teniamo presente che nel periodo di fermo per il Covid molti si sono ricollocati: qualcuno ha trovato lavoro in altri settori e non è tornato indietro). Poi c’è il fatto, nelle fasce più giovani, di voler sperimentare, cambiare un po’ di più. Anche questo è un fattore nuovo: in passato, prima di cambiare, si cercava un’alternativa. Ora c’è un po’ più di rischio e di fiducia e ci sono anche maggiori opportunità lavorative per i giovani, c’è più possibilità di ricollocarsi».

Spesso i bergamaschi si identificano con il fare, con l’attaccamento al lavoro e l’operosità. È ancora così oggi?

In parte sì, in parte no. Penso che oggi molti diano al lavoro un valore diverso rispetto al passato («laurà, laurà..., sempre e comunque, senza pause»). Questo aspetto è forse un poco cambiato, e anche tra i bergamaschi si è fatta strada la necessità di trovare un maggiore equilibrio.
Lo si vede anche nella ricerca del lavoro: oltre che alla retribuzione, si guarda maggiormente anche al benessere complessivo e alla qualità del lavoro. Questo vuol dire che la voglia dei bergamaschi di lavorare sia diminuita? Io non penso... Si stanno solo cercando di riequilibrare i diversi aspetti della propria vita personale.
(a cura di Antonella Savoldelli)

Non limitarti a leggere

Sui temi del lavoro come della famiglia, della vita religiosa e della partecipazione politica in queste settimane è in corso in Bergamasca una grande indagine sociologica, voluta da L’Eco di Bergamo e in collaborazione con i sociologi dell’Università di Bergamo.

Per capire come e quanto siamo cambiati negli ultimi anni.

Per questo i collaboratori de L’Eco stanno realizzando tante interviste, incontrando testimoni della vita delle nostre comunità. Accompagniamo l’indagine con diversi contributi, ospitando sulle pagine e sul sito de L’Eco pareri, domande e riflessioni. Insieme al contributo di chi, bergamasco, oggi vive e lavora all’estero.

Ma soprattutto chiediamo anche a te di comunicarci il tuo pensiero. Vogliamo conoscere le tue idee, per costruire insieme a te una “missione” per il territorio bergamasco. Puoi scrivere a [email protected].

Bergamo senza confini

Ogni settimana uno spazio riservato ai tanti bergamaschi in giro per il mondo, e che si confrontano con valori ed esperienze diverse. Le loro proposte e riflessioni sono un contributo alla nostra indagine.

1.«Quella sera che Macron parlò di Bergamo alla Tv francese...»
Ilaria, da Reims (Francia)

Sono partita da Bergamo nel 1999, all’alba del nuovo millennio, con tante speranze e un grande entusiasmo per la mia nuova vita a Parigi. Avevo 25 anni, una laurea in Lingue straniere in tasca, e tanta voglia di scoprire nuovi orizzonti. Sono passati ben 25 anni da allora: la metà esatta della mia vita l’ho vissuta in Francia ma, devo dire che oggi, pur abitando

in un bellissimo paese, mi sento ancora più bergamasca di prima. Spesso, quando si é lontani dalla propria terra, si tende ad idealizzare il passato, ma ogni volta che ritorno a “casa”, Bergamo mi sembra sempre più bella ed accogliente.

La mia vita a Parigi é stata frenetica, ma esaltante e ricca di esperienze e scambi culturali. Ho subito incontrato colui che é divenuto mio marito, un francese di origine corsa, che ha contribuito alla mia rapida e totale integrazione linguistica e culturale. Ho studiato alla Sorbonne e ottenuto un Master europeo di gestione dei musei che mi ha permesso di integrare il servizio culturale del museo d’Orsay, grazie al mio direttore di tesi, il professor Valery Patin, con cui ho collaborato fino alla sua scomparsa due mesi fa. Una grande perdita per il mondo culturale francese e per me, essendo stato il mio mentore fin dall’inizio dei miei studi a Parigi.

In quegli anni parigini, quando rientravo a Bergamo, mi sembrava di ritornare indietro nel tempo. Tutto era più lento, invariato, quasi rassicurante. La famiglia, i vicini, gli amici, ascoltavano meravigliati i miei racconti: gli studi e il lavoro ma anche la descrizione della vita quotidiana in Francia, i rapporti con i nostri cugini d’oltralpe, con i quali c’è sempre stata una certa rivalità, una relazione ambigua che si può riassumere con il titolo di una canzone di Serge Gainsgourg: «Je t’aime, moi non plus» (Ti amo… neanche io).

Contrariamente a quello che pensiamo in Italia, i francesi ammirano molto il nostro paese. Parlano spesso della nostra « “joie de vivre”, come un sogno ad occhi aperti che solo in Italia è possibile realizzare. Noi pensiamo che i francesi siano molto critici su di noi, ma in realtà lo sono di più verso il loro paese. Apprezzano il nostro pragmatismo, il nostro “savoir faire”, pur non riuscendo a capire come le cose possano funzionare senza quella struttura amministrativa centralizzata che è il cuore pulsante del sistema francese.

Ebbene, ciò che più mi é mancato della mia Bergamo in 25 anni, oltre ovviamente a famiglia e amici, é il calore della gente, la semplicità, la gentilezza, l’accoglienza spontanea e vera. Non che in Francia le persone non siano accoglienti ma, abitualmente sono più riservate, quasi diffidenti (per quello che ho visto nel mio percorso professionale, tra museo D’Orsay, Maison di Champagne Pommery, Università di Reims, e nella vita quotidiana a Parigi e Reims). In pochi anni quindi ho imparato a gestire le mie emozioni e la mia spontaneità “bergamasca”, creandomi una protezione che definiremmo come una sorta di snobismo. Jean Cocteau diceva: «Les Français sont des Italiens de mauvaise humeur» (I francesi sono italiani di cattivo umore).

Dopo Parigi, Reims, dove mio marito ed io ci siamo trasferiti nel 2020, città simile per dimensioni e demografia a Bergamo. Qui lavoro attualmente come professoressa d’italiano e consulente per i musei e il turismo culturale ma, prima della nascita della mia seconda bambina ho lavorato per la Maison di Champagne Pommery (quante volte ho dovuto spiegare che in Italia non esiste solo il prosecco per fare lo Spritz, e che anche noi abbiamo vini effervescenti di grande qualità ma, la battaglia contro lo champagne non si può vincere in Francia...).

A Reims c’è anche una delle più belle cattedrali francesi (“Notre Dame”, come a Parigi). Per chi non lo sapesse, tutte le incoronazioni dei re di Francia, tranne due, sono avvenute in questa cattedrale (per questo Reims è chiamata la “Ville des Sacres”. Vi lascio quindi immaginare come i cittadini di Reims si sentano fieri delle loro origini…, e non dirò nulla sui parigini…

Avendo la scelta fra parisienne e remoise, devo ammettere però che mi sono sempre

presentata come bergamasca e fiera delle mie origini, soprattutto durante e dopo la pandemia Covid. Come tanti francesi, ho sofferto e sperato con tutti i bergamaschi, dalla pianura, alla città, alle valli. Tramite la sofferenza quotidiana e la distanza che mi separava dalla mia famiglia e da mio padre gravemente malato, ho riscoperto la forza della mia terra e delle mie origini. Ero lontana ed era la prima volta che non potevo rientrare ad aiutare i miei. Fu un periodo molto difficile ma la forza e la speranza sono arrivate proprio dalla resilienza della mia famiglia, dei miei amici, del popolo bergamasco. Per di più, la solidarietà che si è creata nel mio entourage francese verso Bergamo mi ha più volte commossa ed aiutata a vivere quel periodo terribile.

Ricordo la sera di marzo 2020, quando durante il suo discorso alla Nazione, sentii il Presidente Macron pronunciare Bergamo fra le città più colpite dal Covid e con le quali la Francia soffriva e combatteva questa “guerra”. Da quel giorno, ricevetti tantissime testimonianze da tutte le città di Francia e dal mondo, da amici, colleghi, come dai miei studenti. Una sorta di solidarietà universale, di “bienveillance” piena di umanità, un abbraccio fraterno alla mia città.

Bergamo era divenuta la “ville martyre” del Covid. Eppure dopo tanta sofferenza, ci siamo rialzati, riabbracciati e siamo divenuti più forti di prima. Per quanto mi riguarda, dopo la pandemia i legami famigliari e il legame con la mia terra si sono rafforzati ancora di più. Le mie due bambine sono divenute entusiaste ambasciatrici della città della loro mamma, e chiedono spesso di andare a Bergamo dai nonni Alessandra e Nico.

Dopo i vari lockdown ho avuto bisogno di ritornare più volte a Stezzano, mio paese d’infanzia, per ritrovare la famiglia, gli amici, i luoghi, fra i quali il Santuario della Madonna dei Campi e gli splendidi paesaggi della mia amata Bergamo, come per paura di rimanere ancora confinata in Francia che, pur essendo la mia seconda patria nonché il paese di mio marito e delle mie due bambine, non potrò mai definire “casa”, poiché casa mia resterà per sempre Bergamo.
Ilaria Salvi (Reims)

2.Anche il viaggio e l’avventura sono nel dna dei bergamaschi
Gianluca (Nigeria)

Sono nato a Uster (Svizzera) da emigranti bergamaschi, mio papa è di Rovetta e mia mamma di Fino del Monte, e sono cresciuto a Rovetta, il bel paesino della alta Val Seriana.
Questo non mi ha impedito di trascorrere metà della mia vita in Africa, visitando un buon

pezzo di globo, sia per motivi di lavoro che con viaggi personali.

Ho trascorso così 25 anni della mia esistenza in Nigeria, a stretto contatto con culture diverse, e questo è indubbiamente il regalo più bello che il mio lavoro all’estero potessi darmi.
Ho lasciato l’Italia per la prima volta nel marzo 1983, con un entusiasmo irrefrenabile, e ho sempre pensato che questo fosse anche inesorabilmente dovuto alle mie origini bergamasche: allora, quel bel paesino mi stava stretto, volevo vedere il mondo, e cambiarlo...

Credo che la voglia di viaggiare sia parte del dna bergamasco: da noi la gente che vuole qualcosa di più, e la sua terra non gliela può offrire, riempie la valigia e parte. Siamo gente così, pronti ad abbracciare il cambiamento, ci adattiamo, siamo curiosi con l’indole di avventurieri, cocciuti, siamo lavoratori instancabili, chiusi e un po’ “orsi”, ma se ci apriamo si scopre una generosità che va oltre i confini e le culture, diventiamo cittadini del mondo.

Questo ci porta a lavorare e vivere immersi in culture diverse dalla nostra e questo ci arricchisce di continuo. Quindi, a causa del mio essere bergamasco, sono in contatto giornaliero con centinaia di africani provenienti dalle più disparate estrazioni sociali, che riescono sempre a insegnarti qualcosa: magari piccole cose, ma è bello poter ascoltare ed imparare da loro.

Ho sempre apprezzato lo scambio che si instaura in questi contesti, così come entrare nella vita di queste persone. Ci sono operai che di fronte a un problema personale scelgono di venire da me e si confidano. Quando dai confidenza la gente ripone fiducia in te e si apre, è molto bello. Alcune volte è impegnativo ascoltarli, ma quando è possibile aiutarli, questa cosa mi dà più soddisfazione del lavoro in sè.

Tutto questo, però, è solo una faccia della medaglia. La Nigeria rimane un paese pericoloso: mesi fa è stato rapito un collega, a marzo il bambino di una collega fuori da scuola. In entrambi i casi, fortunatamente, è andata bene, ma sono episodi che metterebbero sotto scacco chiunque: ti chiedi cosa tu possa aver fatto di male per subire queste violenze gratuite, perchè in fin dei conti ti senti “uno di loro”.

Alla fine del viaggio il sogno resta di tornare un giorno a “quel bel paesino”, riaprire le finestre che avevi chiuso partendo decenni prima e respirare l’aria frizzante dei nostri monti, sentendosi in pace con se stessi.

Perchè Bergamo, per noi bergamaschi, resta sempre il centro del mondo.
Gianluca Beccarelli (Nigeria)

3 - «Le radici della mia personalità»
Alberto, da Clayton (California, Usa)

Cosa ci manca maggiormente? La famiglia e il senso di provenienza legato alla mia terra nativa. È una delle emozioni che sento ogni volta che rimpatrio. Ho conosciuto e lavorato con centinaia di persone, ho vissuto per anni in diversi luoghi ma dopo tutti questi anni, faccio ancora fatica a chiamare “casa” il luogo dove vivo. Forse per la vastità di questa nazione (Usa), o per il mio vagabondare, o forse per il mio essere bergamasco che non ho mai voluto abbandonare.

L’essere bergamasco per me consiste nell’avere un luogo di provenienza, un luogo che ha impostato il mio carattere, la mia personalità. Penso che siamo tutti d’accordo sul fatto che il bergamasco è sempre stato un gran lavoratore: non posso paragonarmi alla generazione dei miei genitori, ma in qualche modo penso di essere stato influenzato. E questo mi ha dato una reputazione di affidabilità e professionalità, che mi ha permesso di crescere nel campo lavorativo e ha condizionato la mia vita. Ho un diploma di terza media eppure sono stato a capo di diverse cucine, ho insegnato in una delle più rinomate università culinarie in America, e tuttora sto lavorando in una delle compagnie più conosciute nel mondo, la Apple.

Manco da Bergamo da molti anni per poter dare un giudizio, ma se volessi accennare a un aspetto in cui Bergamo potrebbe cambiare è il suo “provincialismo”. Sembra che mi contraddica, visto che ho appena accennato ai luoghi, alle persone e alla bergamasca come un sentimento che mi sta ancora a cuore, ma allo stesso tempo, non posso non notare come il bergamasco (o l’italiano) è spesso rinchiuso nel suo piccolo mondo, di idee, pensieri e modi di fare. Lo vedo durante le mie visite, quando si discute di finanza, o di altre culture, e lo vedo anche negli atteggiamenti della vita giornaliera.

Per tornare a uno dei vostri temi, la religione come esempio: mi era stata inculcata in modo quasi ossessivo, ma una volta arrivato in America, tutto questo è svanito, e ho cominciato a vedere il cristianesimo in modo più obiettivo, e con indifferenza.

Una cosa che a me è sempre piaciuta dell’America è che è una terra di immigrati, dove molte razze, culture, religioni si incontrano. E quando ne fai parte, ti rendi conto di quanto c’è al di fuori del piccolo paese.
Alberto Vanoli (Clayton, California)

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