Ziarati: «Il confronto ci aiuta a crescere»

BERGAMO. Mediatrice culturale, di origine iraniana, da 26 anni vive a Bergamo: è sposata con un medico. Leggi le «Interviste allo specchio», progetto in collaborazione con Il Giornale di Brescia.

A ben pensarci tendiamo troppo spesso a liquidare il concetto di globalizzazione culturale come sinonimo di omologazione, di appiattimento delle culture e delle identità. Ma è proprio così? Una decina di anni fa, riferendosi alla globalizzazione dei prodotti culturali, il sociologo francese Frédéric Martel rilevava: «Oggi Los Angeles è la più grossa città coreana dopo Seul, la più grande città iraniana dopo Teheran, la più grande città polacca dopo Varsavia, una delle più grandi città tailandesi e vietnamite al mondo… Chicago è una delle più grandi città greche al mondo e Newark una delle più grandi città portoghesi; Miami è una capitale di Haiti, Minneapolis è un’importante città somala e il Colorado è la regione del mondo in cui vivono più mongoli dopo la Mongolia».

Non è il luogo, dunque, che conta ma la stratificazione tra stili di vita, religioni, lingue e desiderata diversi. Che ruolo gioca la cultura in questo incontro? Pare proprio che sia un potente fattore di “ibridazione”, di creazione di infinite combinazioni, un moltiplicatore di diversità e, dunque, di ricchezza.

Ne abbiamo parlato con Maida Ziarati, iraniana e bergamasca d’adozione da 26 anni, che della mediazione culturale ha fatto il suo lavoro.

Qual è la prima cosa che ha desiderato fare quando si è trasferita a Bergamo?

«Occorre premettere che la provenienza e il grado di scolarità giocano un ruolo importante. Io e mio marito proveniamo da una famiglia in cui tutti siamo laureati e abbiamo viaggiato molto. La chiave di ogni incontro culturale in ogni caso è la lingua e l’ho voluta coltivare subito. L’ho imparata bene, senza difficoltà, direttamente dagli amici bergamaschi. E poi abbiamo cercato i libri. Io e mio marito siamo dei bibliofili e in breve tempo abbiamo riempito la nostra casa di libri. E ho cresciuto i miei figli, entrambi nati in Italia, accompagnandoli continuamente in biblioteca perché ne leggessero sempre di nuovi. Inoltre, sono cresciuta in una famiglia che ama l’arte e così andavo spesso nei musei. L’arte unisce perché parla al cuore ed è universale, e gli artisti provengono da ogni parte del mondo. All’inizio non nego di aver vissuto quei luoghi come un ambiente ostile, dove una donna con il velo veniva osservata con maggior attenzione. Ma molte cose sono cambiate e ho scoperto musei come la Gamec o l’Accademia Carrara di Bergamo come ambienti molto aperti alla diversità. Alla Gamec in particolare, dove ho seguito una formazione impegnativa alla mediazione culturale, ho trovato per la prima volta un istituto culturale che ha dato voce e fiducia a noi stranieri, affidandoci la responsabilità di essere portatori di conoscenza presso i nostri gruppi culturali di provenienza. Da allora ho accompagnato tante persone e soprattutto tante donne a varcare per la prima volta la porta di un museo».

C’è un luogo della cultura o un’opera che per lei ha rappresentato la chiave di volta per sentirsi a casa?

«Un anno fa ho partecipato alla Biblioteca Angelo Mai al progetto di narrazione “Questo libro è vivo”, che ci invitava a scegliere un’opera del patrimonio della Biblioteca che si intrecciasse con il nostro vissuto. Quando ho visto la veduta a volo d’uccello della città di Bergamo dipinta nella Pianta di Alvise Cima ho aperto gli occhi e mi sono resa conto che il mio percorso dentro la città è stato pieno di fatica e difficoltà ma anche di tanta bellezza. Ho capito di essere una persona migliore di quella che qui era arrivata 26 anni fa. Spero di aver insegnato ai miei figli come il confronto con un’altra cultura ti obbliga a metterti in discussione e dunque a crescere, fino a trovare un’armonia, perché le culture non sono statiche ma in continuo cambiamento».

Prossima sfida?

«Di fronte a quella mappa ho capito di essere a casa mia e che dobbiamo andare oltre l’appartenenza culturale e religiosa per essere cittadini e basta, che amano il luogo che abitano e cercano di migliorarlo. Quello che ancora mi manca è diventare protagonista, autorappresentarmi, perché c’è ancora chi decide per me senza avere conoscenza di che cosa significa essere straniero. Ho voglia di contribuire con un ruolo attivo a costruire un futuro migliore per le nuove generazioni. Ho studiato, ho viaggiato, ho cercato in ogni modo di avere un ruolo attivo nella società che abito. E ora voglio cambiare le cose per arricchirci, perché per noi stranieri la cultura che abitiamo è una scoperta continua, ma anche per arricchire, perché abbiamo molto da dare».

Leggi l’intervista allo specchio pubblicata sul Giornale di Brescia, clicca qui .

© RIPRODUZIONE RISERVATA