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Averara e i suoi borghi, terre di confine dove il tempo si è fermato

Articolo. Castagne a volontà, una dogana, una via porticata e importanti affreschi medievali. Averara è un comune piccolissimo della Val Brembana (nemmeno duecento abitanti!), ma tutto da scoprire

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È un sabato mattina terso e pieno di luce, una di quelle giornate che infondono un’energia rara e un acuto bisogno di stare all’aria aperta. L’inizio dell’autunno ha portato con sé raggi di sole sempre più lunghi e obliqui, ma il tepore della giornata è ancora estivo, incurante delle prime foglie che iniziano ad ingiallire sui rami più alti degli alberi.

Il piano per oggi è quello di salire in Val Brembana, e a giudicare dal traffico non sono l’unica ad aver scelto questa meta. La mia destinazione è Averara, un piccolo comune di nemmeno duecento abitanti. Come sempre, non so nulla di quello che troverò, ma non vedo l’ora di scoprire cosa mi riserverà questo nuovo pezzetto di mondo che sto per esplorare. Sono fiduciosa: la Val Brembana è la mia valle bergamasca preferita perché, oltre ad offrire agli occhi dei visitatori paesaggi meravigliosi, è ricca di arte e di storia. Una storia che si intreccia alle storie di tanti di noi che in quei luoghi sentono quell’inconfondibile profumo di casa dei nonni, robusto e delicato come i legami con la propria terra di origine.

Averara, insieme ad alcuni comuni dei dintorni quali Cusio, Cassiglio, Ornica, Santa Brigida e Valtorta, fa parte delle cosiddette Terre dei Baschenis, pittori noti per la loro abilità negli affreschi. La loro bottega ha coinvolto generazioni di artisti a partire dal Quattrocento per 150 anni: chiese e palazzi di questa zona della Val Brembana rivelano quindi spesso affreschi preziosi.

Inoltre, la valle di Averara è stata in passato terra di confine con il Cantone dei Grigioni, affollata dogana e luogo di passaggio di mercanti, viaggiatori, predicatori. Insomma, di storie ne ha sentite raccontare, e con queste premesse la mia curiosità cresce man mano che mi avvicino alla mia meta.

Averara mi accoglie con il sole caldissimo della tarda mattinata che illumina la facciata della Parrocchia di San Giacomo Maggiore Apostolo, dove trovo subito il primo, importante affresco del paese. Sotto al porticato della chiesa infatti si trova la cosiddetta «Torre della Sapienza», un’opera di pittura risalente al 1446 di grandissimo valore educativo e formativo. Si tratta infatti di una sorta di traduzione di regole comportamentali cattoliche nel linguaggio della maggior parte della popolazione dell’epoca, che era ovviamente poco istruita. Parte dell’affresco non è più ben visibile, ma ad uno sguardo attento si possono vedere i diversi mattoni che compongono la Torre, ognuno con il suo insegnamento scritto sopra. Ciò che lo rende davvero affascinante è il fatto che il dipinto sia stato eseguito secondo uno schema mnemonico, che rende le varie regole più semplici da ricordare per chi le apprende osservandolo.

Con un portico assolato e un affresco insolito, Averara è già riuscita a stupirmi. Un vero peccato che la chiesa sia chiusa a quest’ora, perché mi sarebbe piaciuto vedere l’organo settecentesco e gli intarsi del coro, opera di celebri famiglie di artisti della zona: i Rovelli e i Caniana.

Non ho troppo tempo per lamentarmi, perché mi affretto a raggiungere l’Antica Via Porticata nella contrada Fontana, dall’altra parte del torrente Acqua Nera che scorre pochi metri sotto la chiesa. Questi pochi metri ricchi di fascino compongono solamente un piccolo tratto della Via Mercatorum, strada che ha letteralmente fatto la storia della Val Brembana, visto che l’ha collegata per anni al cantone dei Grigioni e al centro dell’Europa. Da qui passarono i mercanti con i loro traffici, le loro merci e le loro storie sino alla fine del Cinquecento, quando per volere del podestà Alvise Priuli venne aperta la nuova Via Priula che però tagliò fuori Averara dai traffici più intensi.

Passeggiare qui sotto al porticato, tra gli stemmi delle più importanti famiglie medievali come i già citati Baschenis o i Bottagisi, Guerinoni, Migazi o Sonzogni, diventa un’esperienza paragonabile a un salto indietro nel tempo.

Per tornare al presente, basta imboccare via Piazzola e passare di fronte a quella che un piccolo pannello esplicativo definisce «ex dogana veneta» e che oggi sembra essere un’abitazione privata delimitata da un cancello e decisamente ristrutturata. Trovo più interessante l’edificio di fronte, ornato di greche e di una piccola cappelletta affrescata.

Pochi metri più avanti un gruppo di case compone una contrada colorata lungo un sentiero stretto e acciottolato. Non vola una mosca e c’è quell’atmosfera pigra e immobile del primo pomeriggio durante le giornate estive più calde. L’unico rumore è quello dell’acqua che sgorga da una fontana con le sembianze di una testa umana, su cui qualcuno ha poggiato una tazzina di caffè colma di fiori. Dipinto sul muro, lo sguardo severo di una Madonna veglia sulle case.

Torno brevemente sui miei passi per poi svoltare in direzione di una delle due torri che osservano Averara dall’alto, da due diversi punti sopraelevati (o per lo meno di quel che resta delle loro strutture). Secondo alcune fonti, in passato erano tre, a comporre una struttura difensiva insieme a un probabile castello: ciò spiegherebbe perché, dopo aver attraversato un prato in leggera salita, mi ritrovo su via Castello.

Alla mia destra intravedo già l’antico borgo di Redivo, che mi ero prefissata come meta. Raggiungerlo da qui però sembra fin troppo facile, e perciò decido di allungare un po’ la strada: quella mulattiera che sale di fronte a me in località Costa mi sembra un luogo molto interessante da esplorare. Non mi sbagliavo perché, dopo aver superato un gruppo di deliziose case in pietra con i davanzali colmi di fiori, la mulattiera prosegue nel bosco. Il silenzio, qui in mezzo agli alberi, è rotto solo dal fruscio di qualche animaletto che striscia sotto al tappeto di foglie cadute. Resto sulla mulattiera fino al secondo bivio verso destra e proseguo poi senza discostarmi mai dal sentiero, aggrappandomi con fiducia ad alcune indicazioni poco precise che ho trovato in rete. Dopo una mezz’ora di cammino mi trovo nel bel mezzo della Selva Castanile, dove qualche riccio di castagna è già a terra, accanto alle casette in pietra abbandonate che si trovano in questa zona.

Scopro solo in seguito che l’ Associazione Castanicoltori Averara si sta occupando del recupero delle selve castanili del territorio, della ristrutturazione degli edifici rurali abbandonati e della costruzione di muri a secco per un progetto inclusivo che unisce residenti e operatori del territorio, didattica, arti e mestieri per costruire un sapere collettivo condiviso, ai fini di conservazione e promozione turistica del territorio.

Dopo un’altra decina di minuti di cammino senza apparente meta, ad un bivio trovo finalmente le indicazioni per Redivo, che mi fanno proseguire in discesa lungo il sentiero CAI 132. Pochi minuti ormai mi separano da questo borgo, di cui sono curiosa principalmente per la Chiesa di San Pantaleone, che ahimé trovo chiusa, e perché qui si trova un edificio molto particolare e unico nel suo genere.

Si tratta di Casa Bottagisi, costruita nel Quattrocento, da molti considerato una dogana veneta, ma che probabilmente fu l’abitazione privata di qualche ricco mercante. Casa Bottagisi, con i suoi quattro piani, non passa di certo inosservata da queste parti, in un gioco di simmetrie, archi e scale di legno.

Davanti a Casa Bottagisi non richiede grande sforzo immaginare epoche passate, e nemmeno troppo antiche. Se chiudo gli occhi riesco a figurarmi le persone che la abitavano rientrare in casa alla fine di un pomeriggio d’autunno: gli animali messi al riparo sotto al porticato dopo una giornata al pascolo, il profumo della polenta che sale dal paiolo di rame, in sottofondo il colpo dell’ascia contro il legno che risuona nella valle.

Il tempo si è fermato, qui ad Averara e nei suoi borghi. Tra le sue strette mulattiere, le case in pietra e gli affreschi medievali, ancora oggi si ritrova probabilmente la stessa atmosfera che vi trovavano i mercanti quando attraversavano la dogana e percorrevano il porticato della via Mercatorum, più di cinquecento anni fa.

(Tutte le foto sono di Lisa Egman)

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