Il 23 agosto scorso misi piede per la prima volta sul suolo amazzonico atterrando a Tarapoto, la «città delle palme» nel nord est del Perù. In realtà di palme in città ce ne sono ben poche, soprattutto dopo che quelle della piazza principale sono state rase al suolo per fare posto a una fontana a forma di palma rovesciata che secondo la municipalità dovrebbe dare nuovo lustro al capoluogo della regione di San Martín. Ricordo che, quando i portelloni dell’aereo si aprirono e scesi i gradini del pontile, mi sembrò di entrare in una sauna. Non sapevo ancora che quella sensazione di umidiccio sarebbe stata una costante di tutta la mia permanenza nella selva. Salii su un pulmino stracolmo di persone, banane, polli e sacchi di riso, che al ritmo della cumbia iniziò a inerpicarsi lungo i tornanti della Cordillera Escalera, propaggine orientale della catena andina.
Eravamo stipati e, avendo io una statura non esattamente nella media peruviana, non sapevo più da che parte girarmi. L’unico modo che trovai per distrarmi dalla scomodità e dal caldo dell’abitacolo fu quello di incollarmi al finestrino e osservare il paesaggio mutare man mano che perdevamo quota. Ai lati della strada, i boschi lussureggianti e le numerose cascate della selva alta lasciavano il posto alle monocolture di papaya e palme da olio, inframezzate qua e là da pascoli e bananeti; l’orizzonte si appiattiva e un’infinita distesa di alberi segnava l’inizio della selva baja. Giunsi così a Yurimaguas, piccola e tranquilla cittadina sulle rive del fiume Huallaga dove ormai risiedo da più di sei mesi per svolgere il mio servizio civile e occuparmi di riforestazione e accesso all’acqua. Tremila chilometri di pura selva tropicale separano questo margine di foresta dall’oceano Atlantico; l’unico modo per attraversarli è navigare sui grandi fiumi che, oltre a fungere da arterie di comunicazione, plasmano il paesaggio e scandiscono la stagionalità di queste lande.
Un’estate eccezionalmente calda
Fin dal primo momento percepii l’Amazzonia come un mondo a parte, e capii che valicata la Cordillera mi aspettava una realtà ben diversa da quella un po’ romantica che mi ero immaginato. Mi colpì il mercato per il suo continuo via vai di gente, l’odore di platano fritto, i polli appena spennati e le bancarelle colorate colme di una gran vastità di frutti tropicali che ancora non ho terminato di assaggiare.
Oltre alla frutta, la serva rifornisce il mercato di piante medicinali, semi, pesci, ma anche tartarughe, armadilli e uccelli, la cui vendita in realtà è illegale. Anche il porto mi attirò per il brulicare di gente; qui, insieme ai carichi di riso, bestiame e frutta si imbarcano i turisti e gli avventurieri che salpano per Iquitos, centro nevralgico della selva situato sulle sponde del Rio delle Amazzoni a 400 km da Yurimaguas.
Il caldo era davvero estenuante, sia per la temperatura, che rimaneva sopra i 30 gradi abbondanti anche di notte, sia per l’umidità alle stelle che faceva sudare costantemente. Le prime settimane per me furono particolarmente impegnative anche se, girando per la città e parlando con le persone, mi resi presto conto che quelle condizioni erano eccezionali anche per gli autoctoni. Le persone che incrociavo per strada avevano il viso spossato, si asciugavano continuamente il sudore dalla fronte e agitavano i ventagli di chambira. Constatai che q ui nessuno si stupisce per un venditore a torso nudo ed è perfettamente normale stendersi a terra o sui banchi del mercato per schiacciare un pisolino. Molti trascorrevano il pomeriggio ciondolando nelle amache o conversando sul sedile del motocarro. La sera, invece, le famiglie si riunivano sull’uscio di casa confidando (invano) in una leggera brezza. In tutto questo, l a foresta rimaneva immobile, rovente, e al crepuscolo, quando il sole calava e l’orizzonte si infuocava, sembrava di sentirla respirare.
In quei giorni le centraline meteo registrarono record mai raggiunti prima in tutta la Amazzonia, con temperature oltre i 40 gradi e una sensazione termica che, a causa della forte umidità, si avvicinò ai 50. Una domenica andai con un collega in spiaggia, sulle rive del Shanusi. Speravo di trovare un po’ di refrigerio, ma dovetti ricredermi entrando nel fiume: l’orologio misurava 33 gradi. In queste condizioni, io che facevo fatica a uscire di casa per raggiungere l’ufficio poco distante, mi chiedevo come facessero i campesinos dei villaggi a trovare le energie per andare a coltivare gli appezzamenti di terra spesso distanti più di un’ora a piedi. Li vedevo tornare dalla foresta, in infradito, curvi sotto il peso dei sacchi di yuca, e riflettevo sul fatto che loro, a differenza mia, non potevano neanche permettersi il lusso di una doccia o di un ventilatore. Molti villaggi, infatti, sono sprovvisti di luce e acqua.
Fiumi in secca
Già nelle prime settimane ebbi l’opportunità di conoscere alcuni insediamenti vicino alla città che raggiungevo in moto o in barca insieme al mio collega. Per l’approvvigionamento idrico, la gente ricorre a grosse cisterne posizionate alle falde dei tetti di lamiera, scava pozzi artesiani oppure riempie i secchi direttamente dal fiume. A fine agosto le cisterne erano vuote da tempo, così come i pozzi meno profondi e nei canali non ancora in secca l’acqua aveva un colore marrone scuro decisamente poco invitante. I più fortunati si rifornivano nei pozzi profondi o direttamente dal fiume Huallaga, che tra l’altro riceve tutti gli scarichi fognari della città, mentre gli altri dovevano accontentarsi dell’acqua torbida dei pantani, almeno finché ce ne fosse stata ancora.
Si tratta di acqua che in Italia non useremmo neanche per abbeverare il bestiame, mentre qui viene usata per il bucato, per lavarsi e per cucinare, con conseguenze sanitarie non trascurabili che ho avuto ebbi modo di sperimentare in prima persona. Nelle comunità più lontane, al confine con l’Ecuador, la situazione è ancora più critica poiché i fiumi Morona e Pastaza sono stati inquinati dal petrolio e dagli scarti minerari, con danni enormi nei territori Achuar, Schawi, Candozi, Chapra e Wampis.
La siccità estrema dell’estate scorsa, acutizzata dal particolare andamento climatico chiamato el Niño, durò fino a dicembre, prolungando di fatto l’estate di circa due mesi. Il livello idrico dei principali fiumi scese ben al di sotto dei livelli critici, facendo scattare lo stato d’allerta. Molti villaggi rimasero isolati, poiché i fiumi che consentivano l’accesso si prosciugarono, complicando tutti gli spostamenti. A fine settembre, per esempio, a causa dei numerosi banchi di sabbia le chiatte impiegavano circa 5 giorni per raggiungere Iquitos, e dovevano viaggiare con carico ridotto. A valle la situazione era ancora più critica perché i battelli, non riuscendo ad attraccare nei porti, erano costretti ad effettuare il trasbordo della merce che arrivava sui mercati a prezzi più alti. Vicino a Tabatinga, al confine tra Perù e Brasile, il traffico fluviale del Rio delle Amazzoni si fermò per giorni e più di cinquecentomila persone dovettero fare i conti con gli scarsi approvvigionamenti. Infine, ancora più a valle, nel nord del Brasile, centinaia di delfini furono rinvenuti sulle spiagge, stroncati dalle acque troppo calde, che raggiunse 40 gradi a tre metri di profondità.
Estrattivismo e diritti negati
Un giorno, di ritorno da una comunità da cui avevamo realizzato un pozzo, ci imbattemmo in una jeep carica di cherosene, probabilmente destinato alla macerazione delle foglie di coca. Nascosti nella foresta, infatti, vi sono diversi campi di coca che arricchiscono il narcotraffico a svantaggio dei contadini. Altre volte ci capitò di vedere degli incendi probabilmente sfuggiti al controllo di qualche campesino, che da queste parti suole usare ancora la pratica del debbio. L’agricoltura di sussistenza, praticata nei villaggi, è messa a dura prova dai latifondisti che comprano a poco prezzo le terre più accessibili per introdurre monoculture di papaya e palma da olio. Queste coltivazioni, oltre a richiedere molta più acqua, impoveriscono i suoli e non contribuiscono al sostentamento della popolazione locale.
Un mio vicino di casa, che lavora come avvocato presso il vicariato di Yurimaguas, un giorno mi spiegò che in Amazzonia i contadini sono spesso lasciati a loro stessi, e che lo Stato non solo non assicura i servizi base quali la scuola, la sanità e l’accesso all’acqua ma, spesso, promuove e sostiene le grandi compagnie estrattive e i latifondisti. Per gli indigeni, che nella sola foresta peruviana comprendono più di trenta etnie diverse, è ancora peggio, in quanto s pesso le loro terre vengono invase senza nemmeno una consultazione. Insomma, l’Amazzonia è terra di nessuno e la vita dei suoi abitanti è una lotta continua.
L’Amazzonia a rischio
Tutti questi aspetti riguardanti le condizioni climatiche estreme, la deforestazione e lo sfruttamento delle risorse naturali, sono stati presi in considerazioni da un team di ricerca internazionale per cercare di capire come evolverà l’Amazzonia nei prossimi 25 anni. Studiando l’interazione di cinque variabili quali il riscaldamento climatico, le precipitazioni annuali e la loro stagionalità, la durata della stagione secca e l’estensione delle aree deforestate, Bernardo Flores e i colleghi autori dello studio pubblicato su Nature il 14 febbraio sono riusciti a stabilire che prima del 2050 una percentuale di foresta compresa tra il 10 e il 47% subirà drastiche transizioni che causeranno il collasso dell’ecosistema così come lo conosciamo.
L’aspetto più critico è legato alle precipitazioni, che al di sotto di una certa soglia non consentono la sopravvivenza della foresta tropicale. La selva è infatti una grande fabbrica di pioggia in cui gli alberi, pompando enormi quantità d’acqua dai suoli all’atmosfera, contribuiscono alla formazione delle nuvole da cui cadono le precipitazioni, che a loro volta sostentano gli alberi stessi. La combinazione di temperature sempre più alte, lunghi periodi di siccità e perdita di vaste aree di bosco rompe questo meccanismo che si automantiene provocando reazioni a catena devastanti sia sull’ecosistema stesso sia sul clima, con conseguenze imprevedibili in tutto il pianeta. Ad esempio, una riduzione della foresta comporta un minor stoccaggio di anidride carbonica e dunque un rafforzamento dell’effetto serra. Questo a sua volta determina siccità e incendi in varie regioni del globo, che causano diminuzione delle foreste, ma anche erosione dei suoli e mancanza d’acqua. Insomma, un circolo vizioso che man mano si autorinforza.
Questo tipo di sconvolgimento avviene quando si superano i cosiddetti tipping points, ovvero le soglie in corrispondenza delle quali la goccia fa traboccare il vaso e il cambiamento risulta irreversibile. Gli scienziati hanno stabilito che per l’Amazzonia tali soglie equivalgono a un incremento di temperatura di 1.5 gradi, a precipitazioni non inferiori ai 1800 millimetri/annui, a una stagione secca lunga più di 5 mesi e a una perdita di aree forestali superiore al 10% della copertura totale originale. In base a come interagiscono i vari fattori di disturbo, in aree più o meno vaste la foresta tropicale è destinata a convertirsi in bosco degradato dominato da liane o bambù oppure a diventare una savana.
Limitare i danni
Gli autori dello studio avvertono che l’unico modo per limitare i danni è agire subito, fermando le emissioni di gas serra a scala globale e contrastando la deforestazione a scala locale. Una foresta con un’alta biodiversità è infatti molto più resiliente ed è in grado di adattarsi alle variazioni climatiche. In questo svolgono un ruolo determinante gli abitanti della Amazzonia, ovvero le migliaia di specie animali e vegetali che insieme rappresentano più del 10% di tutta la biodiversità terrestre. Tra di essi rientrano anche le popolazioni indigene e le comunità rurali, che per migliaia di anni sono state in grado di vivere senza alterare i fragili equilibri che regolano la vita della foresta.
Ogni volta che vado in campo, mi rendo conto quanto ci sia da imparare da questa gente così povera e tenace che sta scontando il prezzo di sconvolgimenti globali causati dall’emisfero opposto. E guardando i bambini che scorrazzano scalzi, mi dico che far fronte al cambiamento climatico e allo sfruttamento sconsiderato delle risorse è un atto dovuto, se non altro per evitare che il loro (e il nostro) futuro sia ancora più precario.
(Tutte le foto sono di Luca Bonacina)