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Napoli è “pop”, a Bergamo già dal Seicento

Intervista. Inaugura oggi la nuova mostra in Accademia Carrara, «Napoli a Bergamo», la prima sotto la direzione di Martina Bagnoli. La curatrice Elena Fumagalli ha ripercorso per Eppen la storia del legame forte e inedito tra Bergamo e la città partenopea, sancito dall’incredibile attrattiva della pittura seicentesca napoletana

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Luca Giordano, Lapidazione di San Paolo. Pedrengo, chiesa parrocchiale di S. Evasio Vescovo e Martire

Che la nostra penisola oggi sia estremamente interconnessa, è un dato certo: in un’ora e mezza di aereo raggiungiamo fisicamente il sud Italia, mentre i trend e le novità si diffondono con un clic. Che questo interscambio culturale fosse già attivo nel Seicento, sorprende. Che Bergamo, poi, fosse al centro di una solida relazione commerciale e culturale con la città di Napoli, non può non incuriosire.

Accademia Carrara, oggi, nella sua nuova mostra « Napoli a Bergamo », propone la narrazione di questo legame. Dal 23 aprile al primo settembre 2024, primo progetto sotto la direzione di Martina Bagnoli, l’esposizione vuole valorizzare un capitolo significativo della pittura seicentesca italiana, tra Naturalismo e Barocco. L’arte diventa quasi precorritrice dei tempi, valorizzando una possibilità di arricchimento culturale che rifugge qualsiasi campanilismo, nutrendosi della possibilità di incontro.

Napoli, oggi, sta vivendo un momento di grande fortuna: possiamo affermare senza troppe remore che sia diventata “pop”. La città partenopea ha fatto il suo ingresso nella cultura contemporanea nazionale e internazionale, dalla produzione cinematografica a quella musicale. Basti pensare al successo di film e serie TV ambientati a Napoli e dintorni («Mare Fuori», «L’amica geniale», «Gomorra») o allo scenario musicale emerso nell’ultimo Sanremo con Geolier, Luchè e Gigi d’Alessio, fino alla scelta dei Codplay di eleggere lo stadio Maradona come tappa italiana del loro ultimo tour.

«Napoli a Bergamo», però, non ha l’obiettivo di seguire l’amore nazional popolare per il capoluogo campano, ma di regalare a Bergamo la riscoperta di un rapporto culturale condiviso. Con la mostra in Accademia Carrara abbiamo la possibilità di riscoprire il legame con quella “napoletanità” che non smette di attirare: nel Seicento, come ora. A tal proposito, ho avuto la fortuna di intervistare la curatrice della mostra, Elena Fumagalli, bergamasca d’origine, ora professoressa ordinaria di Storia dell’Arte Moderna all’Università di Modena e Reggio Emilia.

CDM: «Napoli a Bergamo» è storia di un legame. Su quali solidi pilastri trova fondamento la relazione tra queste città?

EF: È importante sottolineare come questo tema non sia casuale, ma strettamente legato alla storia di Bergamo e della bergamasca, quindi della provincia. Napoli, nella seconda metà del Seicento, è presente a Bergamo attraverso opere e artisti; questo si deve principalmente a due ragioni: gli scambi mercantili con Venezia, città di riferimento per il territorio orobico, e la committenza del Consorzio della Misericordia Maggiore (MIA) e del Capitolo del Duomo, impegnati nella decorazione delle principali chiese cittadine.

CDM: Partiamo dalla relazione con Venezia. Visto questo forte legame, possiamo affermare che lo sguardo di Bergamo sulla pittura napoletana sia mediato dalle considerazioni del capoluogo veneto e dai suoi commerci?

EF: Non deve sorprenderci che una buona parte della pittura partenopea seicentesca sia giunta nella bergamasca transitando dalla laguna: Venezia nel XVI e nel XVII secolo rappresentava lo snodo attraverso cui le merci viaggiavano dal Viceregno alla Lombardia, spostandosi lungo la dorsale adriatica. Le opere d’arte si commerciavano proprio come le altre merci, esisteva un mercato apposito. Arrivavano via mare partendo dai porti della Puglia, in particolare da Manfredonia; risalivano poi l’Adriatico, arrivavano a Venezia, prendendo in seguito la via della terra ferma per raggiungere la città di Bergamo. Moltissimi bergamaschi commerciavano in Laguna e vi risiedevano, occupando anche alcune posizioni di rilievo nella città. È proprio la loro condizione di mercanti che li pone in contatto con la pittura napoletana, tanto apprezzata dai collezionisti della Serenissima, tanto apprezzata dai collezionisti della Serenissima.

CDM: Ma quale è la ricchezza della pittura napoletana del Seicento, tale da attirare l’attenzione dei mercanti a Venezia?

EF: Era senza dubbio una pittura molto ricercata: Jusepe de Ribera (1591-1652), spagnolo d’origine ma attivo a Napoli, per esempio, era molto richiesto. Dipingeva serie di apostoli, di filosofi e di santi, figure a mezzo busto con uno stile ancora naturalistico, quasi caravaggesco. In questo periodo a Venezia era in auge la corrente dei “tenebrosi”, che giocava molto su questo tipo di pittura. Luca Giordano (Napoli, 1634-1705), un altro pittore destinato a diventare punto di riferimento dello scenario, si trovava a Venezia tra il ‘64 e il ’65 e iniziò a dipingere proprio “alla Ribera”: questo accrebbe notevolmente il valore delle sue opere e la sua conseguente fama. La crescente fortuna di cui gode la pittura napoletana a Venezia si riverberò poi presto anche a Bergamo.

CDM: Ed è proprio di Luca Giordano una delle principali tele collocate nella basilica di Santa Maria Maggiore.

EF: Esattamente. Qui entriamo nel secondo filone del rapporto tra Bergamo e Napoli, quello relativo alla committenza per la decorazione delle chiese cittadine. Nel 1682 il grande dipinto di Luca Giordano raffigurante il «Passaggio del Mar Rosso» viene collocato nella basilica di Santa Maria Maggiore, sul fondo della navata centrale. Il successo di quest’opera fece sì che la MIA chiedesse a Giordano di completare la decorazione della volta della navata. Il pittore accettò, ma di fatto non arrivò mai a Bergamo, nonostante le sollecitazioni di Carlo Arici, bergamasco residente a Napoli, per conto della MIA. Fu un collaboratore di Giordano, Nicola Malinconico (Napoli, 1663-1726), a completare la decorazione della navata centrale con quattordici tele, per poi spostarsi nell’adiacente Duomo cittadino per dipingere il Martirio di Sant’Alessandro, primo di un ciclo sulla base di un programma iconografico incentrato sui “Santi Cittadini”, poi completato nei primi decenni del Settecento da alcuni pittori veneti, come Tiepolo.

CDM: Come si spiega il ricorso a tanti artisti forestieri?

EF: A tal proposito è interessante un passo del critico Luigi Lanzi, che nella sua «Storia Pittorica» aveva lodato la via intrapresa dai bergamaschi: «[…] ridotta la città in penuria di pittori propri, non ha mai risparmiato denaro per ornarsi colle opere de’ migliori esteri di ogni paese. Il Duomo e la vicina Santa Maria Maggiore fan conoscerlo bastevolmente. Questo è il vantaggio delle città che han gusto insieme e ricchezza». Il caso della basilica di Santa Maria Maggiore è stato inserito anche da Francis Haskell nel celebre «Patrons and Painters» quale episodio “provinciale” di rilievo internazionale.

CDM: Sono lodi alla capacità di Bergamo di aprirsi all’altro per non rinunciare alla bellezza. Ma mancavano davvero i pittori? Penso a nomi come Baschenis, Cavagna…

EF: Quando parliamo di “penuria di pittori” si intende strettamente la pittura storica; Baschenis dipingeva nature morte, mentre Cavagna muore nel 1627.

CDM: Come si concretizza la relazione tra Napoli e Bergamo nel percorso espositivo che ha ideato per la mostra in Carrara?

EF: Le testimonianze artistiche che abbiamo di questo periodo, tra città e provincia, riguardano tutte la seconda metà del Seicento. Per offrire al pubblico uno sguardo completo sull’intero secolo napoletano, ci siamo allora avvalsi della collaborazione con la Fondazione Giuseppe e Margaret De Vito, , partner della mostra, che ha prestato oltre venti opere. In «Napoli a Bergamo» abbiamo voluto unire il collezionismo privato a un’attenta ricognizione sul territorio. Le opere in mostra sono quarantuno: nelle prime sale accompagniamo il visitatore in un percorso cronologico con i quadri della Fondazione De Vito, mentre nella seconda parte introduciamo i dipinti di Accademia Carrara e quelli intercettati in terra orobica, secondo un’inedita geografia della bergamasca.

CDM: Napoli sembra essere diventata “pop” solo recentemente, sotto la spinta di un grande flusso mediatico. Trovo incredibilmente interessante scoprire come, in realtà, Bergamo già nel Seicento nutrisse un’attrazione particolare per il capoluogo partenopeo.

EF: Il Seicento napoletano è stato al centro di interesse di mostre importanti, in particolare in Francia. Al Louvre, per esempio, c’è stata l’esposizione dei capolavori di Capodimonte («Naples à Paris»). Questo sottolinea, ancora una volta, la fortuna della pittura partenopea, apprezzata da un pubblico internazionale. Per Bergamo è ancora più interessante perché non si limita alla stima sotto il profilo estetico, ma si nutre di una relazione storica significativa. Questa mostra è una possibilità. Noi siamo nati e cresciuti tra Moroni, Ceresa e Ceruti, questa è una pittura diversa. È di impatto, un’aggiunta importante alle conoscenze del pubblico della sua storia, delle radici che ci legano a un territorio.

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