Quirico a Seriate: «Per raccontare
devo patire anch’io paura e fame»

Cinque mesi, 152 giorni, prigioniero di un gruppo di estremisti islamici nella Siria dilaniata dalla guerra. Domenico Quirico, inviato de La Stampa, ha raccontato il suo quinto sequestro, formidabilmente più lungo degli altri, in un libro, «Il paese del male. 152 giorni in ostaggio in Siria».

Cinque mesi, 152 giorni, prigioniero di un gruppo di estremisti islamici nella Siria dilaniata dalla guerra. Domenico Quirico, inviato de La Stampa, ha raccontato il suo quinto sequestro, formidabilmente più lungo degli altri, in un libro, «Il paese del male. 152 giorni in ostaggio in Siria» (Neri Pozza), scritto a due mani con il compagno di prigionia, Pierre Piccinin da Prata. Della sua esperienza e del suo mestiere ha parlato al Teatro Aurora di Seriate, in una serata organizzata dalla locale parrocchia di Seriate e dall’Associazione Il greto.

Quirico, perché lo fa? Perché va in zone «apparentemente infrequentabili»: Congo, Ruanda, Somalia, Cecenia, Sierra Leone, Siria?«Il mio mestiere è raccontare storie di uomini: il loro dolore, angosce, passioni. Devo impostare il rapporto con la realtà che racconto secondo un criterio granitico: quello dell’onestà. Perché questo rapporto esista c’è una condizione sovrana che devo rispettare: condividere le passioni, speranze, sofferenze di coloro che incontro. L’unico modo di condividere è essere lì con loro. Ho avuto paura delle stesse paure. Ho patito la tua stessa fame. Questo mi dà il diritto di darti voce»

Cosa si prefigge, con i suoi reportages?

«La mia ambizione è suscitare commozione, in chi mi legge, attorno al destino, la vita, le battaglie di altri esseri umani. Il passaggio necessario è che io stesso provi emozione, commozione. La mia storia di inviato è legata ad una svolta: il Ruanda. Un milione di persone massacrate, fatte a pezzi, manualmente, autarchicamente, con il machete. Una delle più terribili sconfitte del mio mestiere. Siamo arrivati lì quando tutto era già finito. Il milione di morti era già morto. Non avevamo capito. Abbiamo raccontato il dopo, i cadaveri che galleggiavano nei fiumi, stipavano le chiese. Allora ho capito che questo mestiere, spesso fatto da cialtroni, ha nel fondo una straordinaria responsabilità morale».

La Siria?

«La seconda, gigantesca sconfitta del mio mestiere. Ci sono stato cinque volte: l’unico modo di raccontarla è andarci. Non siamo riusciti a trasformare in coscienza collettiva la profondità, l’ampiezza di quella tragedia. In Siria sono morte, in due anni e mezzo, 130.000 persone; soprattutto bambini, persone comuni, disarmate: falciate mentre fanno la coda per il pane, stanno a casa e l’intero palazzo crolla sotto le bombe di un mig. Non siamo riusciti a creare commozione attorno a tutto questo. Primo passo verso la coscienza, verso una scelta politica, morale, civile». Leggi di più su L’Eco in edicola lunedì 9 novembre

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