Dialetto, lo scrittore Manfredi:
ad Ardesio imparo il bergamasco

Protagonisti del dibattito politico, in questa estate, sono stati i dialetti: ha fatto discutere la proposta della Lega di un test per la selezione dei docenti volto ad accertare la «conoscenza della lingua, degli usi, dei costumi, della storia e delle tradizioni dei luoghi in cui vanno a insegnare» (anche se poi il capogruppo leghista alla Camera, Roberto Cota, ha affermato che non si voleva affatto introdurre un «test sul dialetto»).

Il ministro Luca Zaia, da parte sua, ha lanciato l'idea di fiction televisive girate o doppiate nei diversi idiomi regionali. Negli scorsi giorni, in un'intervista al «Corriere della Sera» e in un articolo pubblicato su «Il Messaggero», ha espresso la propria opinione sul tema un personaggio ben noto ai lettori e ai telespettatori italiani, l'archeologo e scrittore Valerio Massimo Manfredi.

Nato a Castelfranco Emilia nel '43, laureato in Lettere classiche a Bologna, Manfredi s'è poi specializzato in Topografia del mondo antico alla Cattolica di Milano. Ha affiancato all'attività di ricerca e d'insegnamento quella di romanziere: tra le sue opere più note, la trilogia di «Aléxandros» e «L'armata perduta» (Mondadori), con cui ha vinto lo scorso anno il Premio Bancarella. Ha condotto su LA7 «Stargate-linea di confine», a cui ha fatto seguito «Impero».

Professore, sgombriamo subito il campo da un possibile equivoco: lei dichiara di provare una forte simpatia per i dialetti e le relative culture.
«Direi un grande amore e anche un grande interesse scientifico. Io sono emiliano e parlo da sempre il bolognese e il modenese: dialetti diversi, anche se coloro che li parlano si capiscono a vicenda. Una mia nonna, poi, mi ha trasmesso la conoscenza dei dialetti veneti. Quanto al bergamasco, mi sto attrezzando. Trascorro molto tempo ad Ardesio, in Valle Seriana, presso un mio amico, il reporter Giorgio Fornoni (anche sindaco del paese, ndr): mi esercito con lui, facendo conversazione. Credo sia un modo migliore per apprendere una parlata locale, rispetto allo studio sistematico della sintassi e della grammatica: senza contare che queste, in molti casi, non sono mai state codificate (se non a livello approssimativo, da studiosi locali), perché il dialetto è una lingua "spontanea", prevalentemente orale. In italiano vi sono solo cinque vocali, nettamente definite: in certi dialetti, invece, di vocali se ne danno quindici o sedici, con suoni che è possibile apprezzare e ripetere solo se vi si è stati abituati fin da bambini».

Tutta l'intervista è su L'Eco di Bergamo del 13 agosto

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