«La festa di Sant’Alessandro occasione per nuove vie di dialogo»

L’INTERVISTA. Nella giornata in cui si celebra il patrono, il Vescovo di Bergamo monsignor Francesco Beschi riflette su alcuni aspetti che caratterizzano la nostra società e la vita della Chiesa in un difficile contesto di appartenenza ma anche di pluralità. L’intervista su L’Eco di Bergamo di sabato 26 agosto.

Un’ampia, profonda e partecipata riflessione sulla città e sulla Chiesa di Bergamo, senza celare nulla, nemmeno la sofferenza per l’isolamento che avverte crearsi attorno all’opera che la Chiesa stessa svolge in soccorso ai più deboli e ai più fragili. E senza neppure minimizzare il dolore per la riduzione numerica di chi vive l’esperienza ecclesiale e per la diminuzione della rilevanza culturale e sociale dell’esperienza cattolica. È quella che il Vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, traccia nell’intervista che pubblichiamo in occasione di Sant’Alessandro, il patrono che Bergamo si appresta a festeggiare proprio oggi. Mons. Beschi non nasconde le mille difficoltà e le mille contraddizioni che la nostra società e la Chiesa stanno vivendo, «tra appartenenza e pluralità», ma non smette mai di invitare tutti noi ad una lettura illuminata dell’esperienza cristiana per trovare le risposte a quegli interrogativi che ci interpellano nel nostro modo di essere non solo cristiani, ma uomini «capaci» di umanità.

Oggi Bergamo festeggia Sant’Alessandro, patrono di Bergamo e da molti secoli ormai simbolo della città e dei bergamaschi. Ma è ancora così? Nel 2023 il soldato diventato martire nel 303 d.C. è patrono di chi? Bergamo si riconosce ancora attorno a questo patrono?

«Quanto possa essere significativa e unificante la figura del santo patrono, è tutto da verificare. Certamente non è più il tempo in cui una città si identificava nel suo insieme con la comunità cristiana. Oggi, la grande varietà di idee e sensibilità caratterizza la vita sociale in ogni sua espressione e rende problematici movimenti di coesione consolidata. Viviamo una tensione, che in questi ultimi anni si è accentuata, tra appartenenza e pluralità. Anche la fede, nelle sue espressioni più tradizionalmente religiose, è attraversata da questa tensione: tra indifferenza e insignificanza e utilizzo strumentale della religione per progetti che hanno le finalità più diverse. Detto questo, ritengo che la celebrazione del patrono mantenga, anzi offra alcune potenzialità sia per la vita religiosa, come per quella culturale e sociale, che meritano riconoscimento».

La figura del patrono ci porta alla questione dei nuovi simboli che la società moderna innalza sugli altari del consumismo, elevandoli così a modelli universali che il mondo occidentale non esita a seguire senza alcuna riflessione. Quelli religiosi sembrano ormai scomparsi… Bergamo non è da meno, lo abbiamo notato anche in questi 7 mesi di Capitale della cultura, una cultura decisamente laica, come si è visto fin dal giorno dell’inaugurazione, in un grande spettacolo in cui ogni rimando alla grande storia e alla grande tradizione spirituale e religiosa della nostra città e della nostra provincia è stato occultato. La Chiesa di Bergamo ha supplito con iniziative proprie e condividendo con il Comune quelle per il patrono, ma non le sembra che Bergamo abbia voluto mostrare solo una parte del proprio volto, quello nemmeno troppo radicato nei bergamaschi?

«La funzione simbolica è sempre di grande rilevanza nelle dinamiche sociali. Il simbolo è sintesi di idee e ideali, e nello stesso tempo sorgente di sentimenti, passioni, adesioni. In una società caratterizzata dalla cosiddetta disintermediazione, anche i simboli tradizionali sono soggetti ad una revisione. La fruizione diretta dei servizi, il consumo immediato delle possibilità, le pluriappartenenze e la mobilità elevata e globale, la moltiplicazione delle culture presenti su un territorio, la riduzione delle attività e addirittura dei soggetti a pure funzioni, rende meno significativa ed efficace la valenza di ogni simbolo, compresi quelli religiosi. Quanto a BergamoBrescia, città della Cultura, mi sembra si tratti di una preziosa occasione per valorizzare e promuovere il patrimonio culturale delle nostre città e dei nostri territori. Le due diocesi hanno manifestato dall’inizio grande interesse a questa prospettiva, con la consapevolezza di poter contribuire con un patrimonio culturale e artistico di rilievo indiscutibile. Sulla base delle indicazioni progettuali che ci sono state indicate abbiamo avviato processi e iniziative che hanno avuto e stanno avendo riscontri importanti e soprattutto si caratterizzano per la scelta di definire possibilità strutturali e strutturate di fruizione del patrimonio culturale, più che di moltiplicare proposte di eventi. Rimane aperto l’interrogativo circa la rappresentazione che Bergamo vuol darsi in prospettiva futura: un interrogativo che la comunità ecclesiale rivolge a tutti i soggetti della vita cittadina, ma che rivolge in primo luogo a se stessa».

A proposito di cultura, anche l’accoglienza e l’ospitalità sono simboli culturali, e oggi Bergamo è tornata (come sempre del resto) ad essere una delle città più accoglienti del Nord Italia per quel che riguarda gli immigrati o i rifugiati dalla guerra in Ucraina. Ad accogliere, però, ancora una volta, sembra essere più la Diocesi che la città…

«Bisogna innanzi tutto ricordare e riaffermare che la comunità bergamasca nel suo insieme è una comunità accogliente. Non mi soffermo su alcuni tratti che caratterizzano la nostra accoglienza, ma desidero dichiarare questa disposizione della nostra comunità, che spesso non viene riconosciuta. Non mi avvalgo di dati precisi, ma posso affermare che la nostra città è tra le prime in Italia per percentuale di presenze stabili di persone provenienti da Paesi diversi dal nostro e che nei momenti di emergenza ha dimostrato, ancora tra le prime, capacità di risposte solidali. In questi processi, la Chiesa bergamasca è sempre stata in prima fila, non solo nell’accoglienza di persone di altri Paesi, ultimamente dall’Afghanistan e dall’Ucraina, ma anche di persone del nostro territorio e della nostra città che trovano nelle parrocchie, negli oratori, nelle opere diocesane, nella Caritas, nel Patronato San Vincenzo, negli Istituti religiosi, nel mondo cooperativo di ispirazione cristiana, nel mondo del volontariato su strada e nelle strutture, un’accoglienza generosa. Sono consapevole che la Chiesa non è l’unico soggetto che interpreta il valore e le prassi dell’accoglienza: certamente vi sono le istituzioni, altri soggetti sociali e la grande generosità di moltissimi bergamaschi. Nello stesso tempo, avverto la sensazione di una certa solitudine nel sostenere questa risposta, la sensazione di un atteggiamento strumentale nei confronti della Chiesa, alla quale attribuire gli “scarti” di un sistema che ingiustamente ne produce, e in qualche caso l’incomprensione e l’insofferenza nei confronti della sua opera, fino al punto di volerla smantellare. La crescita impressionante dei “nuovi arrivi”, le contraddizioni nel sistema di accoglienza, l’impressionante e dolorosa tragedia delle migliaia di morti in mare, il crescente disagio sociale e l’impoverimento di famiglie italiane, l’aumento del disagio psichico, non possono lasciarci indifferenti. In questo momento, a Bergamo siamo ancora e sempre in campo, e non ci sottrarremo a rinnovati sforzi per sostenere il riconoscimento della dignità di ogni persona, italiana o di altri Paesi».

Prendo a prestito il titolo di una recente pubblicazione del teologo Brunetto Salvarani - “Senza Chiesa e senza Dio” - per chiederLe: anche i bergamaschi sono così? I cattolici a Bergamo sono davvero una minoranza?

«La domanda sottende un’idea che certamente ha buone ragioni per venir evocata: cioè, che Bergamo, la storia e la fisionomia della Diocesi e del suo territorio, rappresentino un’eccellenza nel panorama della Chiesa in Italia e nel mondo. Ancora oggi, molti, soprattutto da lontano, la immaginano così. Io stesso, pur provenendo, dalla vicina e, in parte, somigliante Chiesa bresciana, ho avuto questa forte impressione. Proprio in questo consiste la sofferenza non lieve, mia e di molti preti e cristiani: in questo decennio, il cambiamento è stato velocissimo non solo per quanto riguarda la contrazione numerica di coloro che vivono l’esperienza ecclesiale, ma anche per quanto riguarda la sua rilevanza culturale e sociale. Anche la nostra Chiesa è attraversata da un cambiamento che tante diocesi in occidente hanno sperimentato molto prima e che pone molti interrogativi. Desidero però invitare, soprattutto i credenti, ad una lettura non solo sociologica o storica o anche solo teologica, ma ad una lettura illuminata dalla fede vissuta ancora da molti che, se non ci esonera dalle altre, nello stesso tempo le riconduce ad una speranza non velleitaria, ma frutto della fede stessa. La Chiesa ha sempre un futuro: ci disponiamo a scorgerlo e a prepararlo».

A metà del suo Pellegrinaggio pastorale tra le parrocchie della Diocesi che bilancio può tracciare? Ha trovato ciò che si aspettava oppure c’è qualcosa che l’ha in qualche modo stupita? La vita delle parrocchie è sempre più difficile e la partecipazione dei fedeli, dopo il lockdown imposto dal Covid, è diminuita. Che futuro avranno le parrocchie? Così come sono organizzate, sono ancora in grado di rispondere alla nuova ricerca di senso dell’uomo contemporaneo, non sempre di natura religiosa o spirituale?

«Le tappe di questa visita alle 389 parrocchie della diocesi, gli incontri e le celebrazioni rinnovano ogni volta un sentimento di profondo stupore, di ammirazione, di gioia e di riconoscenza. A fronte della consapevolezza che ho delineato prima, riconosco che le parrocchie del nostro territorio, pur in contesti non semplici, rappresentano ancora una forma di vita comunitaria che perdura nel tempo, mantiene significatività, corrisponde a bisogni reali e, con umiltà, continua a testimoniare la speranza evangelica. Anche se le fatiche di coloro che maggiormente si impegnano, e in modo particolare dei sacerdoti, pongono interrogativi a volte radicali, il soffio dello Spirito e la fede di non pochi riescono a custodire la brace e ad alimentare la fiamma di cui è ancora capace. Le piccole parrocchie, sono circa 150, mi interpellano in modo particolare. Avverto l’attaccamento alle tradizioni e il desiderio di conservare presenze che, per quanto riguarda gran parte di altre attività e servizi sono venute meno. Avverto anche la consapevolezza della necessità di scelte e cambiamenti più adatti non soltanto a conservare, ma a prospettare percorsi maggiormente coerenti alle esigenze del Vangelo in un mondo cambiato anche nelle più piccole comunità. La mia convinzione è orientata a prospettare e sostenere forme più condivise, sia tra parrocchie come pure tra sacerdoti. Vedo il futuro, caratterizzato da piccoli nuclei di sacerdoti, di cui uno solo parroco e altri dedicati alla pastorale delle relazioni e delle cosiddette “terre esistenziali”, al servizio di più comunità del territorio, con un coinvolgimento in termini di competenza e responsabilità da parte dei laici».

Bergamo è sempre stata terra di vocazioni, moltissime anche quelle missionarie. Negli ultimi anni questo slancio si è affievolito. I Seminari, così come sono oggi, riescono a mantenere la stessa funzione per cui sono stati creati o andrebbero ripensati?

«Il nostro Seminario è stato sempre considerato uno dei fiori all’occhiello della nostra Diocesi. Anche questa comunità, in tempi molto brevi, si è ridotta quantitativamente. Ma sia la comunità dei più giovani, che quella di coloro che si preparano al ministero del sacerdote, mantengono una propositività formativa di qualità elevata ed apprezzata. La riflessione su forme diverse di proposta e riconoscimento della vocazione al sacerdozio e della formazione al suo esercizio, è continuamente all’ordine del giorno in tutto il mondo. Anche il nostro Seminario sperimenta percorsi innovativi, che molti non conoscono, continuando ad immaginare una forma di Seminario che non corrisponde più alla realtà».

Lei ha recentemente partecipato a due iniziative: il pellegrinaggio diocesano in Francia e in Belgio, e la Giornata mondiale della Gioventù, vivendo a stretto contatto con due «popoli» diversi, il primo più «maturo», il secondo - va da sé - molto più «fresco». Può utilizzare questa esperienza come una sorta di termometro per misurare lo stato di salute della nostra Fede?

«È da molti anni che la proposta del “viaggio” come occasione capace di esprimere non solo la fede, ma anche la ricerca spirituale si è andata affermando. I “pellegrinaggi” non sono più soltanto esperienze di particolare devozione, ma preziose occasioni per ritrovare, nutrire, avvicinare, riscoprire le ragioni della fede, proprio attraverso la dinamica del “viaggio” condiviso con altri. Si tratta quindi di una specie di “avventura spirituale” in cui le sorprese non sono poche, anche quando l’età delle persone sembrerebbe non favorirle. Tanto più questo avviene quando il “viaggio” è condiviso con persone giovani. In questi anni non solo le GMG, ma i pellegrinaggi a piedi per diversi giorni, su itinerari affascinanti dal punto di vista spirituale, con centinaia di giovani, hanno confermato questa opportunità. Anche l’ultima GMG di Lisbona, insieme alla grande esperienza di incontro con il Papa e con milioni di giovani da tutto il mondo, ha offerto a tutti la possibilità di un movimento di interiorizzazione. Sono testimone di quanto sia avvenuto e di quanti lo abbiano assecondato. Se vogliamo misurare l’efficacia della proposta in ritorni di natura immediatamente ecclesiale, probabilmente rimarremmo perplessi: ma oggi il percorso all’incontro personale con il Signore, si pone con caratteristiche che meritano di essere comprese, accolte e valorizzate».

Anche Papa Francesco crede molto nei giovani, nelle loro speranze, nei loro progetti, e li ha esortati «a non temere» di andare avanti. Saranno in grado di cambiare il mondo?

«A differenza del tempo della nostra gioventù, mi sembra che oggi il desiderio dei giovani, a volte incompreso e sofferto, abbia bisogno della fiducia degli adulti nella loro capacità di cambiare questo mondo».

Il prossimo mese di ottobre si aprirà la seconda fase del Sinodo della Chiesa. Che idea si è fatto? In molti dicono che la Chiesa deve cambiare: è così vero? E se sì, riuscirà a cambiare?

«La Chiesa, ci hanno insegnato, è sempre da cambiare. L’appello alla conversione non solo personale, ma anche comunitario è ineludibile. Abbiamo ricevuto dei doni meravigliosi: il Concilio, Pontefici santi e illuminati, le istanze profetiche di Papa Francesco, l’apertura della Chiesa a dimensioni universali ed ora la promozione della dimensione “sinodale” della Chiesa, nella quale ogni battezzato, donna e uomo, possa esprimere la propria responsabilità. Le dinamiche della Chiesa sono originali e non possono essere ridotte a quelle di una ristrutturazione aziendale. L’attore fondamentale del cambiamento è lo Spirito Santo e certamente ci sorprenderà, come è sempre avvenuto».

Torniamo ai cattolici e al loro impegno nella vita sociale del nostro Paese ma anche della nostra città, dove, peraltro, nella primavera prossima, si andrà alle urne non solo per le Europee, ma anche per rinnovare il sindaco e, probabilmente, il presidente della Provincia. Ma in fin dei conti, i cattolici in politica hanno ancora qualcosa da dire? Ha ancora senso impegnarsi in questo particolare aspetto, oppure è ormai tempo del “liberi tutti”?

«La riflessione su questo tema è molto ampia e richiede tempi e spazi diversi. Una constatazione si impone al punto di apparire scontata: una stagione rappresentativa dell’impegno dei cattolici in politica è finita. Era solo l’ultima di una serie, succedutasi dalla seconda parte dell’Ottocento in Italia e negli altri paesi occidentali. Se l’attuale stagione dovesse essere quella invernale, non dobbiamo né spaventarci, né rassegnarci: anche l’inverno è una buona stagione, perché ciò che viene seminato possa germogliare a primavera e maturare in estate. Si tratta di immaginare le iniziative da assumere per stagioni che richiedono tempo, coltivazione, seminagione e cura. In termini molto essenziali e non certo finalizzati a soluzioni immediate, tanto più di natura elettorale, ritengo ci si debba impegnare da cristiani e tra cristiani, in dialogo con altri che possono essere interessati, ad una riformulazione del rapporto tra la fede e la politica: un rapporto che non è dato una volta per sempre e nella stessa forma, ma che è costitutivo dell’esperienza stessa della fede, al punto da esigere una spiritualità politica. In secondo luogo, ritengo che la grande ricchezza dei mondi e delle opere sociali ecclesiali e di ispirazione cristiana debbano essere provocate ad elaborare politicamente la densità delle loro esperienze. In terzo luogo è necessario alimentare un riconoscimento ed una reale partecipazione dei cristiani alle esperienze di natura amministrativa proprie dei livelli locali, che non consistono soltanto nella gestione dei servizi, ma diventano esperienze costruttive di vita sociale caratterizzate da visioni e ideali che si trasformano in scelte concrete e verificabili. Nel 1956, don Primo Mazzolari così si pronunciava: “Dietro al bilancio comunale non basta che ci siano degli amministratori probi, retti, superiori. [...] Ci vuole anche una visione dell’uomo. [...] Il paese non ha soltanto bisogno di fognature, di case, di strade, di acquedotti, di marciapiedi. Il paese ha bisogno anche di una maniera di sentire, di vivere, una maniera di guardarsi, una maniera di affratellarsi, una maniera anche di condannare il male”. Infine è ineludibile assumere uno sguardo che non può essere solo nazionale e tanto meno nazionalistico, ma europeo e mondiale. La celebrazione del Patrono della città e della Diocesi, nel contesto di Bergamo Brescia, città della Cultura, è una importante occasione per aprire dialoghi nuovi, riaprire dialoghi dimenticati e continuare quelli ancora aperti. Buon Sant’Alessandro a tutti»

© RIPRODUZIONE RISERVATA