Il Maso da copertina

Ancora tu, ma non dovevamo risentirti più? Come il cow boy vendicatore che nei film western torna dal passato, riecco Pietro Maso. Venticinque anni fa uccise papà e mamma per l’eredità, per poter cavalcare l’onda da protagonista tra spider, champagne e camicie di seta.

Quel delitto, quel processo, quello sguardo di ghiaccio privo di pentimento furono uno shock per un Paese che ancora non si rendeva conto dei danni d’individualismo e di autoreferenzialità procurati dagli anni del riflusso durante i quali i principali riferimenti di filosofia sociale erano Jerry Calà e il Drive In. Scontato il debito con la giustizia, Pietro Maso è ricomparso. Il problema è che non l’abbiamo incontrato per caso alla fermata del bus o in una libreria, ma sulla copertina di «Chi» a torso nudo, depilato e tatuato, nell’atto di raccontare le sue memorie ad Alfonso Signorini con l’aria da tronista (copyright di Selvaggia Lucarelli). Lo stragista da copertina del tutto incapace di trattenersi da un esibizionismo fuori luogo ci ha fatto riflettere.

Nessuna pruderie, nessuna volontà di moraleggiare, semplicemente un sottile fastidio nel ricordo di quell’atto e nella constatazione che chi l’ha commesso ha l’intenzione (25 anni dopo) di sfruttarne pubblicamente gli effetti. E la discrezione? E il pentimento che porta con sé anche una certa sobrietà nei comportamenti? Tutto questo non sembra più figlio di una società, in cui perfino l’espiazione concede troppo all’immagine e troppo poco alla sostanza. E poiché ogni eccesso fa spettacolo, non ci stupiremmo di veder comparire Pietro Maso come ospite al festival di Sanremo.

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