L'Editoriale
Giovedì 15 Settembre 2016
Senza pietà
non siamo nessuno
«Chi sono?». È questo uno dei grandi interrogativi che accompagnano la vita di ciascuno di noi e che non finisce mai di sollecitarci e di inquietarci. Il più delle volte, a questo interrogativo noi rispondiamo facendo riferimento all’altro, agli altri: tendiamo così ad identificarci con l’immagine che l’altro si fa di noi.
È un meccanismo noto: nell’incertezza, ognuno di noi si aggrappa all’immagine che gli proviene dall’altro, in modo particolare dalle persone che gli sono vicine. Avviene così per il bambino, che non a caso attende dai genitori, soprattutto dalla madre, una conferma della propria identità: sono colui che tu dici che io sia. E una madre, purtroppo non sempre e non tutte, dice al figlio chi è nutrendolo, pulendolo, abbracciandolo, baciandolo, dicendogli esplicitamente «ti voglio bene». Nella quotidianità del vivere insieme, l’identità del piccolo si forma così. In verità inizia a formarsi, dato che ciò che lui è si rivelerà soprattutto in ciò che sarà, vale a dire in un’identità molto più complessa di quella che gli proviene persino dalla sua stessa madre.
Tiziana si è suicidata. A proposito di questo atto estremo, mi permetto di ripetere ciò che scrissi in un’altra occasione: il suicidio non è mai un semplice fenomeno sociale, poiché esso è sempre l’auto-soppressione di una vita particolare, della vita di quella determinata persona, di una singolarità che come tale è e resta un mistero. Il suicidio «in linea generale» non esiste. Si suicida Luca, Anna, Maria, Antonio, quell’unica persona, e nessuno può pretendere di conoscere e tantomeno di giudicare le ragioni e le non ragioni, le paure e le angosce, le solitudini e i sensi di abbandono, le frustrazioni e i sentimenti di fallimento che portano un singolo ad un simile gesto. No, di fronte al suicidio di un uomo, non si può giudicare, non si deve giudicare: forse come in nessun altra vicenda umana, in questo caso non si può far altro che dire addio, a-Dio.
Eppure, senza giudicare, non bisogna tuttavia rinunciare a riflettere. Nel suicidio gli studiosi riconoscono la ricerca di una via di fuga, una sorta di liberazione da una situazione che il soggetto, per infinite ragioni, finisce per percepire come del tutto chiusa, per l’appunto senza vie d’uscita. Il suicidio è un modo, sbagliato, per uscire da una situazione all’interno della quale non si vede più alcuna uscita, è come un modo per liberarsi da un peso insopportabile. Così inteso, in questa logica follia bisogna saper riconoscere un appello o un grido. Forse Tiziana ha voluto gridare «io non mi risolvo in quelle immagini del video, la mia identità non coincide con quella che proviene da quelle immagini, io sono altro da ciò che quelle immagini comunicano». Qualcosa di simile avviene nel pudore: istintivamente ci si copre davanti ad uno sguardo che tende ad esaurirmi nell’immagine del mio solo corpo; davanti a colui che «mi mangia con gli occhi», coprendomi e/o arrossendo, io grido, a chi sa e vuole intendere, che quell’immagine è sempre parziale e dunque fallace: in questo caso, non sono colui che il tuo sguardo, che non è mosso dall’amore, dice che io sia. Coprendomi mi sottraggo, tento di sottrarmi, a quell’immagine/foto di me che, come ha colto acutamente Barthes, è sempre l’immagine di un cadavere.
Ora, se si potesse parlare a Tiziana, forse le si potrebbe dire: ma come hai mai potuto credere che quelle immagini ti definissero? Come hai potuto farti risucchiare e chiudere all’interno dei confini di quelle immagini? Come hai potuto credere che le persone che ti sono care si fermassero a quelle immagini e non sapessero che tu sei sempre stata molto di più del ritratto che quelle indecenti e infelici immagini tratteggiano? Forse c’era un altro modo per sottrarsi alla chiusura in un’immagine che, per l’appunto, è sempre e solo un’immagine, forse avresti potuto insistere nel chiedere alle persone che ti hanno amato: dimmi chi sono, confermami che non sono come quelle immagini fanno credere che io sia.
Ma si può, ed anzi si deve parlare soprattutto a coloro che di queste immagini hanno fatto uno scempio. Alcuni parlano di «perversione». Non diciamo sciocchezze; la perversione è una cosa seria e per innescarsi ha sempre bisogno di una patologia o del fuoco dato da una cultura ampia ed approfondita. In questo caso si tratta piuttosto di superficialità, di mancanza assoluta del senso del pudore, della totale assenza di un minimo di rispetto per la persona umana. Ma forse sto esagerando: termini come «pudore» o «persona» per gli attori di questa tragica vicenda suonano probabilmente come del tutto vuoti, come qualcosa di inadeguato perché eccessivamente serio. In effetti - ecco perché non conviene tirare in ballo la vetta della «perversione» - qui ci si vuole più prosaicamente divertire, scherzare, ridere; sempre e soprattutto ad ogni costo, un po’ come gli «spensierati di Sion, i buontemponi» di cui parla il profeta Amos (6, 1-7). La parola d’ordine è nota: «Che male c’è? Lo fanno tutti», il che vuol dire: «Poiché lo fanno tutti, allora non c’è alcun male nel farlo». E così tutti fotografano tutto, e tutti mettono tutto in rete, sotto gli occhi di tutti. Lo si è sempre saputo: il mettersi in scena , l’essere in scena ed avere un pubblico, è fonte di grande godimento per il soggetto; oggi, nella nostra società globalizzata e digitale, questa banale verità è diventata il luogo comune che alimenta il comportamento di milioni di persone.
I media, di fronte a questa vicenda, hanno subito rivendicato il «diritto all’oblio». Certo, su questo siamo tutto d’accordo, ma forse si può cogliere questa occasione per ribadire qualcosa di più banale ,ma al tempo stesso anche di più sottile ed essenziale: a dispetto di coloro che insistono nell’identificarci con l’immagine dei «consumatori» e dei «navigatori della rete», noi siamo e vogliamo restare essere umani. E sebbene non siamo in grado di dire chi veramente siamo, sappiamo tuttavia con certezza che non c’è umanità vivente laddove vengono meno l’intimità e la pietà.
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