Pd, tante leggi
Non tutte buone

È cominciata male ma è riuscita miracolosamente a durare il tempo dovuto: la diciassettesima legislatura si chiude ed è tempo di fare il bilancio. Il quinquennio 2013-2017 è figlio delle elezioni in cui il Pd di Bersani doveva stravincere e invece non raggiunse la maggioranza, non fece il governo nonostante un bizzarro appello alla buona volontà dei grillini, e non riuscì a eleggere il successore al Colle di Giorgio Napolitano. Il quale, poco prima di dare l’incarico a Enrico Letta per un «governo di larghe intese», strigliò i parlamentari che non s’erano accordati nemmeno sul nuovo inquilino del Quirinale - e più li strigliava più loro applaudivano - e li vincolò a fare le riforme.

Il breve e poco felice periodo di Letta fu troncato di netto dal Pd - tutto il Pd - per mettere, al posto del figlioccio di Prodi, Renzi il «rottamatore».

Renzi, come Letta, mise in piedi un governo grazie al «Patto del Nazareno» con Berlusconi che però si infranse quando il segretario-premier impose Mattarella al Quirinale. L’anno dopo, alle elezioni europee, Renzi portò a casa un trionfale 40 per cento di voti, record dal 1958, e si apprestò a governare l’Italia per lungo tempo col suo «Giglio Magico», più Alfano e Verdini ma senza il Cavaliere.

Se non avesse perso il referendum sulle riforme, Renzi sarebbe ancora a palazzo Chigi: invece per lui il gong è suonato il 4 dicembre 2016, 1.034 giorni dopo il gelido passaggio di consegne con Letta, a causa del ceffone datogli dal 60 per cento di «no» popolari alle riforme votate dal Parlamento. E così, mentre dal Pd se ne andavano D’Alema e Bersani, sulla scena salì Paolo Gentiloni, tanto fedele al programma quanto diverso dal suo predecessore: meno vulcanico ma rassicurante come un democristiano (non lo è mai stato), nemmeno scalfito dai problemi che hanno logorato il renzismo di governo, a cominciare dal caso Banca Etruria.

Gentiloni chiude ora la fila di tre presidenti del Consiglio del Pd che, pur non avendo avuto una maggioranza di seggi alle elezioni di cinque anni fa, sono riusciti a governare ugualmente, in parte col centrodestra, in parte da soli. E, per quanto le opposizioni lo neghino, il bilancio del quinquennio è consistente.

A memoria di giornalista parlamentare, non c’è stata legislatura – almeno della Seconda Repubblica – in cui siano state approvate tante leggi nei più vari campi, dalla scuola al lavoro all’economia, ai diritti civili, all’anticorruzione, alle stesse riforme poi bocciate. Non tutto è venuto bene, s’intende: il Jobs act è tuttora contestatissimo; la buona scuola ha provocato le ire di studenti e professori, gli incentivi sono stati giudicati «mance» elettorali, a partire dagli ottanta euro che Di Maio e Salvini sono pronti a confermare se governeranno. Per virtù propria o per aiuto esterno, l’Italia ha ripreso a camminare: Pil, fatturati, ordinativi, produzione, occupazione, turismo, consumi, hanno tutti il segno più, almeno nel Nord e in parte nel Centro (non nel Sud che invece sta sprofondando). Certo, il debito è salito e la bestia della burocrazia non è stata domata, e le spese correnti dello Stato aumentano mentre gli investimenti arrancano. Tanto altro si potrebbe dire, anche in negativo.

Ora scatta la campagna elettorale: Renzi e i suoi, molto indeboliti dalla prova di governo, dalle ripetute sconfitte, dalla scissione e dal caso banche, difenderanno i loro risultati. Salvini e Di Maio li contesteranno assicurando di saper fare molto meglio. Ma l’ago della bilancia sarà ancora una volta Berlusconi che, redivivo, potrà lui solo assicurare stabilità a una diciottesima legislatura che si annuncia già adesso fragile e breve. Proprio come la diciassettesima che sta spirando in queste ore.

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