Medioriente, Obama
ha sbagliato quasi tutto

È tempo di pagelle a Washington, e giornalisti, politologi e analisti sono indaffaratissimi a compilare quella di Barack Obama: una pagella che contiene - facendo la media di tutte le valutazioni - un certo numero di buoni voti, specialmente per la politica interna e gli accordi sui gas-serra, e una quasi insufficienza (sei meno) che sfiora la bocciatura: quella della politica mediorientale, dove il presidente uscente lascia una situazione molto peggiore di quella che aveva trovato nel 2008. In effetti l’America, che otto anni fa, nonostante la guerra sbagliata di Bush contro l’Iraq, era ancora la potenza egemone della regione, oggi è quasi emarginata, vista con diffidenza anche da tradizionali alleati come Israele e l’Arabia Saudita e impotente di fronte al grande ritorno della Russia.

Di positivo, c’è (forse) soltanto l’accordo con l’Iran, concluso dopo interminabili negoziati e con la collaborazione dei membri del Consiglio di Sicurezza, che dovrebbe ritardare di dieci-quindici anni la corsa degli ayatollah verso la bomba atomica. Ma il trattato non ha assolutamente soddisfatto gli israeliani (principali interessati in quanto minacciati di «distruzione» da Teheran), incontra difficoltà nella sua applicazione ed è stato definito da Trump, deciso a rinegoziarlo, «il trattato più stupido che si possa immaginare».

In Medio Oriente Obama, un po’ per inesperienza, un po’ per velleitarismo, ha proprio sbagliato quasi tutto. Ha cominciato con un grande discorso di apertura al mondo arabo all’Università del Cairo e un altro in Farsi al popolo iraniano, nel segno dello slogan «siamo pronti a stringere la mano a chi aprirà il pugno». Risultato, quasi zero. Si è messo in testa di risolvere il conflitto israelo-palestinese, un compito in cui tutti i suoi predecessori avevano fallito, ma non è riuscito a smuovere nessuna delle parti dalle loro posizioni. Si è lasciato ossessionare dall’idea che, mentre tutto intorno la regione esplodeva, il principale problema fosse l’aumento degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme est, scontrandosi furiosamente con Netanyahu e sanzionando la rottura alla vigilia di Natale astenendosi per la prima volta su una risoluzione antiisraeliana del Consiglio di Sicurezza.

Ma l’errore più grave è stata l’errata valutazione delle Primavere arabe, giudicate all’inizio come un positivo passo verso la democrazia e perciò incoraggiate in tutti i modi. I risultati sono stati catastrofici. In Egitto, Obama non ha esitato a scaricare il vecchio e affidabile alleato Mubarak per facilitare elezioni che hanno portato al potere i Fratelli Musulmani, e non ha nascosto la sua irritazione quando i militari hanno fatto marcia indietro deponendo l’incapace e fazioso presidente Morsi. Risultato: i rapporti con Al Sisi sono freddissimi, e il Paese ha cessato di essere il pilastro portante dell’influenza americana in Medio Oriente. In Libia, l’appoggio militare (fondamentale, secondo un rapporto Nato) a Francia e Gran Bretagna nell’eliminazione di Gheddafi ha prodotto il caos che abbiamo sotto gli occhi.

Ma gli errori più gravi Obama li ha commessi in Iraq ed in Siria. Per mantenere una promessa elettorale, ha ritirato troppo presto le truppe americane abbandonando Baghdad a un governo sciita incapace e fazioso e lasciando così ampio spazio alla nascita di quel Califfato che è oggi uno dei maggiori problemi mondiali; e per cercare di riguadagnare il terreno perduto, si è dovuto affidare ai Curdi, nemici giurati di quei turchi che sono ancora (almeno in teoria) suoi alleati nella Nato e ad allearsi invece virtualmente con gli iraniani, nemici storici dell’America, suscitando la rabbia dell’ex amica Arabia Saudita e dei suoi alleati sunniti. In Siria è andata peggio: dapprima Obama ha appoggiato i ribelli chiedendo l’immediata rimozione di Assad, poi ha permesso a quest’ultimo di attraversare la «linea rossa» dell’uso delle armi chimiche contro la popolazione senza intervenire, infine ha assistito impotente all’arrivo dei russi che gli hanno addirittura inflitto l’umiliazione di escluderlo dai negoziati di pace. Purtroppo, si tratta in gran parte di cambiamenti difficilmente reversibili, qualunque cosa faccia ora Trump.

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