Il taglio alla spesa
non è decisivo

Quando si parla di taglio della spesa pubblica si dà normalmente il via ad un gioco di equivoci e di ipocrisie. Gli economisti del rigore ne fanno quasi un totem, un obbligo addirittura etico. I politici ci vanno più prudenti. Virtuosi a parole, sanno benissimo che ogni euro tolto dal mercato pubblico produce dolori, polemiche, rancori, perché c’è sempre qualcuno che ci rimette, e i voti non si guadagnano tagliando. E poi non è che il bene stia per definizione tutto nei tagli e il male nel lasciar le cose come stanno.

La spesa sociale è sacrosanta, per esempio, almeno finchè non arriva Trump anche da noi. Il problema vero, se mai, sono gli sprechi, e soprattutto i costi di certi capitoli enormi ma intoccabili. Vedi le Regioni, mentre tagliare gli spiccioli dei costi della politica nelle Province ci ha consegnato rappresentatività minore ma anche strade provinciali piene di buche e scuole che perdono i pezzi. Si è cercato di rimediare a questa commedia, traducendo taglio in inglese e si parla ora di spending review. Revisione non vuol dire però taglio, ma qualcosa tra monitoraggio e ristrutturazione. Il nuovo commissario dal nome esotico, il Pd Yoram Gutgeld, italianissimo in tutto il resto, anche in una certa furbizia comunicazionale, ha scelto questa versione e ha rimodulato la spesa muovendo quasi 30 miliardi di spostamenti, definiti tagli. Dopo un commissario tecnico, Cottarelli, che non masticava la politica, e uno, Perotti, molto in linea con l’aria populista dei tempi, Gutgeld è un politico e la sua è stata una relazione politica. Piaccia o non piaccia alla Corte dei Conti, che l’ha criticata per la verità in modo un po’ sommario come purtroppo avviene da qualche tempo per questa istituzione, un tempo gloriosa.

Cercando però di capire se Gutgeld ci ha ingannato mischiando le carte, guardiamo ai numeri. I 30 miliardi, oggettivamente, sono spostati da un capo all’altro secondo una scelta discutibile ma legittima. Si tratta di vedere se si sono fatte scelte giuste nel merito, e qui giudica la politica. In termini assoluti, i tagli non sono di 30, ma di pochi miliardi. Lo dicono i valori: la macchina pubblica ha speso 825 miliardi nel 2014, 830 nel 2015, 829,3 nel 2016 e prevede di scendere a 826,9 nel 2017. Secondo la Ragioneria dello Stato in realtà entro il 2019 l’aumento ci sarà, e sarà di 5,4 miliardi. Si badi bene che – al netto di queste campane dal suono un po’ diverso – quel che si sta facendo non è comunque poca cosa. Il paragone con gli altri Paesi è positivo, perché il livello di spesa per servizi pubblici risulta per noi il più basso tra i grandi Paesi, al pari con la Spagna e – in tutto l’arco dei Paesi Ocse – siamo quelli che incrementano di meno la spesa: +0,2 contro una media europea del 6,6 e una Germania al 13,6.

Che questo sia in assoluto un bene, attenzione, deriva solo -vedi sopra - da valori qualitativi, e infatti lo stesso Gudgeld ha tenuto a ricordare che i nostri tagli non sono stati sui servizi, come ad esempio in Grecia (l’unica che ci batte in riduzione), ma garantendo (sia pur parzialmente) cose come gli insegnanti di sostegno e il nuovo farmaco per l’epatite C. E i 30 miliardi spostati hanno comunque destinazioni virtuose. Infatti, di questa cifra, 12,7 miliardi sono andati a prestazioni previdenziali e assistenziali, 3,7 per la Sanità, 3,4 per i migranti, 3 per la scuola e 1 per la sicurezza. Nei restanti 8, ci sono i tagli veri e propri, in gran parte però dovuti a San Draghi, che da Francoforte fa diminuire il nostro costo sul debito. Si potrà discutere di questo mix e l’asse destra-sinistra ci potrà suggerire come meglio distribuire i pesi, ma questo è il quadro. Sapendo che è facile far esercizi percentuali su oltre 800 miliardi di spesa, i faciloni che escono dai bar e vanno in cattedra ci ricordano sempre che l’1% vale già 8 miliardi. Peccato che la spesa realmente aggredibile sia molto di meno, e cioè – dice il rapporto – di 327,7 miliardi. Quando dunque si parla di 30 miliardi su cui lavorare si è già quasi al 10%, e non è poco, considerando che quasi tutta questa cifra è costituita da spese del personale e acquisti.

A proposito di personale è peraltro alle viste il necessario rinnovo dei contratti pubblici, fermo da 8 anni, 5 dei quali motivati dall’emergenza. Servono ora circa 5 miliardi, che rimetteranno in pari l’algebra. Nel 2016, è risultata di 164,1 miliardi, rispetto ai 5,5 in più del 2011. Ma non si può strangolare in eterno un comparto. E così torniamo al problema di fondo, e cioè che la finanza pubblica non si mette a posto solo con i tagli. E neppure con il fisco che, in parallelo, in questi anni è stato compresso ben più degli altri Paesi europei. Il tavolino, per stare in piedi, ha bisogno di altre due gambe. Innanzitutto la riduzione del debito pubblico (e se dovessimo obbedire al fiscal compact, altro che spending review), e poi soprattutto con la crescita del Pil e dell’inflazione. Entrambi stanno un po’ risalendo, e solo un rotondo +2 di questi valori potrà segnare il cambiamento.

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