Il Senato federale
dei facili consensi

Chi ben comincia, è a metà dell’opera. Lo dice la saggezza popolare. Alla riforma costituzionale in approvazione, però, il detto proprio non si addice. Un vizio d’origine la inficia e la avvolge in un alone di ambiguità che, a mio parere, ne pregiudica il buon esito.

Il vizio d’origine è quello di averne legato l’approvazione alle sorti del governo, così che schermaglie tra maggioranza e opposizioni, lotte intestine a un singolo partito e perfino giochetti di corto respiro si scaricano su un progetto che dovrebbe rivedere una parte significativa della nostra Carta fondamentale. A questo esito ha purtroppo contribuito anche l’ex presidente Napolitano che, da garante della Costituzione, si è trasformato in sponsor improprio di una sua discutibile revisione. Sulla riforma del Senato questo limite si coglie in pieno.

La riforma apre a un Senato che vorrebbe essere di tipo federale, rappresentativo delle istituzioni territoriali e delle Regioni in particolare. Con questa trasformazione, come attesta l’esperienza di Paesi federali (l’Austria, ad esempio), può essere coerente l’elezione dei senatori da parte dei Consigli regionali. Risulta quindi infondata la critica degli oppositori (anche interni al Pd) che vorrebbero un Senato direttamente eletto dai cittadini. In un Senato che si voglia espressione delle autonomie, il titolo di legittimazione dei membri non può non provenire dagli stessi enti che i senatori saranno chiamati a rappresentare. Né davvero appare sensata la proposta di mediazione (la Martina-Pizzetti: elezione dei senatori entro listini regionali dedicati) che, preoccupandosi più dell’unità del partito che delle sorti della Costituzione, di fatto cumula le ambiguità. Proprio un Senato che fosse davvero espressione delle autonomie territoriali potrebbe essere un contrappeso efficace ai pericoli del bicameralismo perfetto o di una «dittatura» della maggioranza.

A patto – appunto! – che il Senato sia federale per davvero! E qua vengono le ambiguità del testo. Alcune puntuali e teoricamente emendabili; altre di fondo. Partiamo dalle prime: intanto la previsione, all’interno di un Senato di tipo federale, della componente formata da ex presidenti della Repubblica e senatori di nomina presidenziale appare fuori luogo, mentre risulterebbe un’integrazione appropriata nella Camera dei deputati. È poi da rilevare la scarsa e ambigua componente di sindaci prevista. Personalmente, sono convinto che la vera architrave dell’autonomismo in Italia sia costituita dai Comuni, sicché condivido l’idea di portarne una rappresentanza entro un Senato federale. E però, se questo è l’obiettivo, non si capisce perché i rappresentanti dei Comuni dovrebbero essere scelti, come prevede la riforma, dai consiglieri regionali e non dai Comuni stessi, magari attraverso il Consiglio delle autonomie locali.

Vi sono poi altri problemi apparentemente risolvibili (ad esempio, il modo in cui decide ogni «delegazione» regionale...). Il problema di fondo è però che si introduce un Senato delle Regioni in un tempo in cui le Regioni soffrono una evidente crisi di legittimazione democratica (non a caso, come ha notato il presidente dell’associazione italiana dei costituzionalisti, D’Atena, dalle Regioni è venuto un «assordante silenzio» su una riforma che pure le dovrebbe esaltare); e nel contesto di una riforma la cui cifra complessiva è, come abbiamo sottolineato in molti e molte volte, la semplificazione e il riaccentramento decisionale. La reintroduzione di un’indeterminata clausola di supremazia statale, capace di alterare il riparto delle competenze legislative Stato-Regioni, lo conferma appieno. Non a caso, il vice presidente Pd, di fronte alla richiesta dei «dissidenti» interni al partito di un Senato direttamente elettivo, non ha rivendicato la contradditorietà di questa ipotesi rispetto al ridisegno federale della seconda camera, ma ha trinciato una risposta grossolana quanto rivelativa del vero intento semplificativo della riforma: «Vuol dire che rimane tutto così come è? Che si devono ancora pagare i senatori?».

Ecco l’ambiguità: la riforma del Senato non è parte di un disegno di ripensamento dell’architettura democratica del Paese, teso ad arricchirne la capacità di rispecchiare il pluralismo sociale e istituzionale; all’opposto: la riduzione del numero dei senatori e l’azzeramento della loro indennità sono la preda più succulenta che l’azione del governo Renzi vorrebbe mettere nel carniere per consolidare un facile consenso e lenire il mal di pancia dell’elettorato. In un Paese serio, l’alternativa non dovrebbe essere tra l’affossamento della Costituzione e quello del governo. Ma se fossimo ridotti a questo, personalmente non avrei dubbi su cosa privilegiare.

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