Ringraziando il modem satellitare ecco una «cartolina» dall’equatore

KENYA - Il temuto Zimbabwe per il momento non è assolutamente da temere ed è tutto da raccontare... a tempo debito. L’unico problema serio è reperire il carburante, ma l’emergenza è relativa. Apro una parentesi. Scriverò al singolare perché così mi è stato indicato dalla redazione e perché in effetti dà l’esatta idea del viaggio in solitario. Naturalmente quando non sarò solo scriverò al plurare ed è il caso di Kenya e Tanzania visto che ero con un amico, con me da Addis Abeba.

Spero a breve scadenza di completare la laboriosa operazione recupero e raccontare il raid quasi in tempo reale, in differita al massimo di una settimana. Il problema dell’invio è stato parzialmente risolto nel senso che, scartato definitivamente il telefono satellitare Iridium, di una lentezza (2,4 kbit/s) e di un’inefficienza generale esasperante, ho in dotazione un modem satellitare Bgan Inmarsat che lavora a 144 kbit/s e mi consente di poter gestire la posta elettronica. Potrei utilizzarlo pure per spedire le foto, ma per ridurre i costi preferisco ricorrere a un Internet point. Che non è sempre dietro l’angolo. Ecco perché sovente i ritardi sono inevitabili. Il modem satellitare (l’ho ricevuto in Etiopia e reso operativo in Tanzania) ha la forma e la dimensione di un pc portatile, ma è senza schermo e tastiera. Un programma del computer mi dice in quale direzione orientare il modem (dotato di una bussola) e di quanti gradi alzare l’antenna per stabilire la connessione con il sistema satellitare Inmarsat (funziona quasi sempre) e con Outlook Express si invia e riceve posta.

Mi riallaccio al racconto. Dopo la notte trascorsa su un materasso steso in terra, in una sala da biliardo di un hotel a Yavello, in Etiopia, di primo mattino ci siamo diretti verso il confine con il Kenya, distante 220 km di strada asfaltata.


A Moyale, frontiera etiope, abbiamo perso un po’ di tempo perché un funzionario si è accanito sul visto del mio passaporto che aveva, secondo lui, una strana cancellatura e perché alla dogana non c’era nessuno. Un uomo che si aggirava lì per cambiare i soldi ci ha accompagnato a tirare giù dal letto il doganiere che, essendo sabato, se la prendeva comoda, ma erano già le 9,30. Corsa in ufficio. Il doganiere, a cui abbiamo prestato una penna per compilare il carnet de passage, non aveva però nemmeno il timbro e allora abbiamo dovuto attendere una sua collega. Eravamo un po’ contrariati perché temevamo di perdere in Kenya la scorta armata, che sembrava indispensabile (nell’area non sono rari violenti scontri intertribali ed esiste il banditismo). In realtà così non era. A Moyale, frontiera del Kenya, atmosfera super rilassata, sorrisi e pacche sulle spalle. Il funzionario capo ci ha ricevuto nel suo ufficio (sulla porta una scritta di condanna alla corruzione, bene) dicendoci che la scorta era assolutamente inutile, potevamo viaggiare da soli senza rischi.


Ok. Nessunissimo controllo al fuoristrada (superati Tunisia, Libia, Egitto e Sudan è stata una pacchia), timbri in un battibaleno, nulla da pagare. Siamo entrati in paese e, sulla destra, la prima insegna ci ha stupito: era quella del «Manchester United official shop», su sfondo naturalmente rosso, ma non vendeva magliette di Rooney. ln Keyna sono pazzi per la Premiership che trasmettono in televisione sui canali satellitari sportivi (in Africa stravince il calcio anglosassone, alla serie A italiana restano le briciole) e affibbiano a bar, negozi di alimentari e a svariate attività commerciali il nome di squadre inglesi.


Come l’Etiopia, il Kenya è stata soltanto una tappa di trasferimento perché abbiamo deciso di privilegiare la Tanzania dove ci sono il Kilimangiaro da scalare, il parco Serengeti, il cratere di Ngorongoro, il mare di Zanzibar e una missione creata dal nulla da un passionista bergamasco, padre Fulgenzio Cortesi, vicino a Dar Es Salaam. Scorta di acqua e rotta sempre verso sud su strade pessime (eufemismo). Anche l’arteria principale, la A2 (purtroppo non è un’autostrada), è sterrata e inoltre è continuamente ondulata per i segni delle ruote dei camion. Un sobbalzo infinito, snervante.

Paesaggio piatto e desertico con scarsissima vegetazione, capanne circolari con tetto a semisfera, talvolta coperto da pelli di animali. Dopo 250 km di imprecazioni eccoci a Marsabit. Ci siamo sistemati in un hotel, simpatico con i suoi murales ma molto spartano (costo equivalente a 8 euro per una doppia senza bagno). Il gestore ci ha accompagnato alla missione per conoscere il vescovo italiano di Marsabit, Ambrogio Ravasi (di Bellusco), che ci ha accolto con un eloquente «qui vengono soltanto i missionari e i pazzi».

Il vescovo ci ha raccontato della sorprendente religiosità delle tribù («non sono animisti, credono anche loro in un Dio e pregano con passione e devozione»), ma delle ataviche tensioni esistenti tra le diverse etnie (una sera di luglio i Borama, ubriachi, hanno massacrato un centinaio di Gabbra che si sono vendicati una settimana dopo uccidendo una decina di avversari) e del vescovo di Isiolo, un vercellese, Luigi Locati, ucciso sempre a luglio, ma non a causa della religione o della delinquenza, bensì da un prete africano per motivi di carriera e denaro. Il gestore dell’hotel e il vescovo ci hanno indicato un percorso alternativo, meno terribile, alla A2 che continua verso il monte Keyna.

Una guida conosciuta in hotel ci ha disegnato una mappa (qui a lato). Avremmo allungato un po’ la strada, sempre sterrata, ma avremmo evitato le maledette ondulazioni.

Ci saremmo in pratica collegati alla strada che, dal lago Turkana, conduce a sud. La mattina dopo a colazione abbiamo deciso di optare per la soluzione alternativa.

Nella saletta un cartello ammoniva: «Sì, tu puoi fare tutti i piani che vuoi, ma l’ultima parola è di Dio». Rifornimento (gasolio caro, un litro 70 centesimi di euro).

Subito dopo la partenza, sulla strada, ci siamo imbattuti nel primo keniota in costume tradizionale: un guerriero fiero con il volto lievemente sfregiato, un ornamento di perline al collo decisamente femminile, arco e frecce.

Si è mostrato a torso nudo ma aveva una coperta di cotone per ripararsi dal freddo del mattino.

Ne abbiamo visti diversi armati di lance o addirittura di fucili automatici, in versione moderna con orologio e occhiali da sole, in bicicletta. Le donne sono coloratissime, con monili dappertutto e collane gigantesche.


Districarsi nell’universo delle tribù keniote è impossibile: sono più di settanta, tra cui i famosi Masai, i guerrieri-pastori. A Logologo abbiamo deviato a destra per la strada alternativa.

La pista era ben segnata nella sabbia abbastanza soffice del deserto: sperduti villaggi, cammelli, natura incontaminata. Presto però la pista è diventata accidentata e, quando ci siamo immessi sulla strada che scende dal lago Turkana, si è trasformata in un mezza pietraia. Abbiamo letto giorni dopo che si era rovinata così per El Nino. Ci siamo fermati su un’altura dove stavano sostando anche venti turisti italiani, «Argonauti esploratori», che viaggiavano nella direzione opposta, cioè verso il lago Turkana, nell’ambito del loro tour in Kenya e Tanzania. Avevano una scorta armata per maggiore sicurezza.

Tanta curiosità per il mio raid intorno al mondo e un caloroso buona fortuna. La pista è penetrata nel bush, nella boscaglia, ed è ulteriormente peggiorata quando siamo saliti verso Maralal con tratti da mulattiera. Non sappiamo come abbiamo evitato una foratura (formidabili i pneumatici Bridgestone Dueler 265/70) e non so come Marco, il mio amico, che era al volante, abbia potuto guidare senza scomporsi mai.

Maralal, a più di 2.000 metri d’altezza, sembrava che si spostasse sempre di più per diventare irraggiungibile. L’abbiamo agguantata che era ormai sera. Guidando tutto il giorno abbiamo percorso 500 km, ovvero il doppio della strada principale, la A2, che dubito fosse più brutta e che ci avrebbe avvicinato maggiormente a Nairobi. Un disastro, anche se la consolazione è che così abbiamo visto un Keyna selvaggio al 100%. C’era l’idea di visitare il villaggio costruito dal laico bergamasco Franco Pini a Nyagwethe sul lago Vittoria, a ovest, ma era un po’ fuori mano. Se non avessimo perso tempo stupidamente.... Il giorno dopo, ecco i primi animali africani, le zebre. Superata Nyahururu (cittadina molto devota: c’è un cartello stradale che ricorda i dieci comandamenti), abbiamo varcato la linea immaginaria dell’Equatore.


Ci sono due vistosi cartelli che lo indicano sul bordo della strada. C’è un negozietto dove vendono prodotti artigianali e la pergamena che attesta il superamento del punto. Uno studente strappa la mancia ai turisti con un esperimento. Con un secchiello pieno d’acqua e un cerino si sposta a una ventina di metri a nord della linea dell’Equatore e mostra come il cerino ruoti nell’acqua in senso orario, si sposta una ventina di metri a sud della linea e il cerino ruota in senso antiorario, mentre sulla linea il cerino rimane fermo. Sì, eravamo proprio equidistanti dai due poli.


A Nairobi ci siamo riposati un giorno nel confort dell’Holiday Inn con merenda a base di bistecca (eravamo in arretrato...), cena in una pizzeria a forma di capanna con forno a legno (ci sono numerosi ristoranti italiani) e una colazione indimenticabile in hotel il mattino dopo (buffet chilometrico). Avevamo una stufetta accesa accanto perché la temperatura era bassa. Non avrei mai creduto di avere freddo ad agosto nell’Africa equatoriale.

A proposito di temperature: dopo la sauna in Egitto, non ho più sofferto il caldo, nemmeno nel deserto sudanese. Ho sempre viaggiato con 20, 25, massimo 30 gradi. Nairobi è una delle metropoli più inquinate del mondo: sull’agglomerato urbano grava una cappa di smog ben visibile. C’è una costante foschia e dai tubi di scappamento di camion e pullman fuoriesce uno spaventoso fumo nero. Nairobi ha centri commerciali all’occidentale, fornitissimi venditori ambulanti ai semafori (riviste straniere, accessori per i telefonini, antifurti, attrezzi per il fai da te...) e una baraccopoli, Kibera, tra le più tristemente famose d’Africa. Ci siamo diretti senza indugi verso il confine con la Tanzania, 170 km più a sud.Marco Sanfilippo

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