Da Sabbio al Vietnam
«Stregato dall’Oriente»

Una recente indagine condotta da un team di psichiatri dell’università di Pittsburgh ha messo in evidenza come il venticinquesimo anno di età costituisca un importante spartiacque nell’esistenza di ogni individuo. Gli studiosi hanno infatti rilevato che il compimento del primo quarto di secolo segna la fine dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta: in quel frangente il cervello abbandona la ricerca ossessiva della novità, preferendo trovare l’equilibrio necessario per pianificare il resto della propria vita.

È andata così anche per Kyung Ho Bruletti, classe 1976: nato in Corea del Sud e arrivato a Sabbio di Dalmine il 13 dicembre dello stesso anno. Il più bel dono di Santa Lucia per mamma Annalisa e papà Dionisio, che hanno messo al mondo altre quattro figlie femmine: insomma, una famiglia in formato maxi. Aveva nove mesi Kyung Ho, che in coreano significa «cavaliere valoroso». Per scoprire l’origine del suo nome avrebbe però dovuto attendere 25 anni: complice il viaggio post laurea fatto insieme a una delle sorelle, Cristina, per conoscere il Paese da cui era stato portato via in fasce e del quale non sapeva nulla. Ecco, proprio in quel momento prese atto di un altro fatto alquanto singolare: aveva sempre, inconsapevolmente, storpiato il suo nome. «Perché in coreano la “u” si pronuncia come fosse una “o”: quindi io sono Kyong Ho», racconta.

Ma la vera rivelazione di quella vacanza non furono l’etimologia, né tantomeno la fonetica legate al suo appellativo: quel mese passato con lo zaino in spalla e la guida Lonely Planet stretta tra le mani gli fece capire che lui, in quel posto, voleva viverci. «Chissà, forse era il richiamo delle radici: eppure fino ad allora non mi ero mai interessato alla Corea. Ne avevo giusto sentito parlare in occasione delle Olimpiadi del 1988, ma era finita lì: non le ho dedicato nemmeno la tesina di terza media, per dire. Mi piacque al punto che, atterrato in Italia, accettai un lavoro come operaio per tre mesi - noncurante della laurea in Economia aziendale che avevo appena conseguito - pur di racimolare denaro a sufficienza per salire nuovamente su un aereo con destinazione Seul».

E così avvenne: per un anno il bergamasco insegna italiano in una scuola della Capitale. «Una città in cui si sta divinamente: mezzi pubblici efficienti, sicurezza, servizi. Ancora oggi ci vado spesso, sebbene nel frattempo il costo della vita sia lievitato. Dopo dodici mesi, però, fui costretto a tornare a casa per problemi legati al visto». Quella che doveva essere soltanto una parentesi, si trasforma in una permanenza tutt’altro che fugace. Kyung Ho si ferma sei anni e tenta diverse strade: inizia la pratica come commercialista, capendo che quella professione non è nelle sue corde. Preferisce darsi all’import/export in un’azienda di Varese, per poi passare a un gruppo con sede nella provincia di Napoli e, infine, torna in Lombardia, dove lo arruola una nota catena specializzata nella vendita al dettaglio di prodotti per la prima infanzia.

Si trova bene e ha ottime chance di fare carriera, ma un giorno del 2009 realizza che non ha più voglia di trattenersi in Italia. «Nell’estate di quell’anno mi regalai un tour in solitaria del Vietnam e me ne innamorai. Ancora una volta, rientrai a Milano e mi rimboccai le maniche per metter via qualche soldo e comprare un biglietto di sola andata».

In questi sette anni, Bruletti ha vissuto ad Hanoi, Dalat e Ho Chi Minh, dove è di stanza dallo scorso luglio. «Dapprima ho lavorato come agente, creando un ponte tra una ditta autoctona di mobili da giardino e altre realtà tricolori. In seguito sono stato assunto da Pacorini, una multinazionale di Trieste che si occupa di servizi di logistica e stoccaggio: oggi sono vicedirettore della filiale locale. I nostri magazzini ospitano al 99% caffè: il Vietnam è il primo produttore al mondo di Robusta (nonché il secondo in senso assoluto, ndr). Qui si sta bene: altrimenti non avrei deciso di rimanere tanto a lungo. La gente è socievole, il clima piacevole e si può andare al ristorante spendendo poco: del resto il reddito medio pro capite è di 2.000 dollari annui. Certo, esistono anche aspetti negativi: su tutti, il traffico. Quando mi sono trasferito, era raro che un vietnamita possedesse un’automobile: oggi l’hanno in moltissimi. Peccato che le strade non siano adatte dal punto di vista della viabilità, i parcheggi siano quasi inesistenti e bastino due gocce di pioggia perché le carreggiate si allaghino e tutto si paralizzi. Grazie al cielo, nel 2020 dovrebbero inaugurare la prima stazione metro: un’urgenza impellente, considerati i 12 milioni di abitanti».

E, poi, ci sarebbe un altro piccolo dettaglio: il Paese è una Repubblica socialista monopartitica. «Il pro è che ci si sente al sicuro: ci sono controlli e polizia in ogni dove. I contro sono ovviamente legati alla libertà di espressione e di stampa: capita che blocchino Facebook e bisogna stare attenti a criticare il Governo in un luogo pubblico. È vietato manifestare: qualche mese fa un’azienda straniera ha inquinato pesantemente il mare, causando una moria di pesci e i pochi che hanno osato scendere in piazza per lamentarsi del danno ambientale, sono stati arrestati». Al cibo, invece ci si abitua: «I grilli fritti sono una leccornia: sanno di gamberetti. Ho mostrato qualche resistenza quando mi hanno offerto del boa stufato, ma alla fine mi sono convinto ad assaggiarlo ed è davvero delizioso: sembra pollo».

Il suo futuro, conclude, non potrà più prescindere dall’Asia. «In Italia pensavano che fossi straniero, mentre a Seul si rivolgevano a me in coreano – lingua che mastico a malapena – ed era complicato spiegare le mie origini. Qui in Vietnam capiscono subito che non sono indigeno e poco gli importa che sia coreano o italiano: sono libero da collocazioni geografiche ed etichette. Nella Bergamasca torno con gioia ogni anno, ma solo se si tratta di vacanze: lì ci sono i miei adorati nipoti, la mia famiglia e i veri amici. Tutte le volte, si compie un piccolo rito: mi aspettano mille manicaretti cucinati con amore dalle mie zie».

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