Una strana impresa, lo zar esce
indebolito

MONDO. A ventiquattr’ore di distanza, che cosa resta della strana impresa di Evgeny Prigozhin, per anni definito con spregio «il cuoco di Putin», poi assurto al rango di fondatore dell’esercito mercenario più potente del mondo, infine arrivato a sfidare il proprio mentore Putin muovendo i carri armati e provando a dettargli decisioni e linea politica?

Abbiamo scritto «strana» non tanto per ciò che è poi uscito, dai milioni di euro alla sparizione dello stesso Prigozhin, ma perché fin dall’inizio nessuno sapeva bene di che cosa si trattasse. Un colpo di Stato? Troppo. Una rivolta? Troppo poco, visto che era in marcia un esercito di 30mila uomini. Una rivoluzione? Figuriamoci, nessuno è andato appresso a Prigozhin. Qualche selfie a Rostov sul Don e basta. Dunque?

Da molti mesi il fondatore e capo del Gruppo Wagner puntava il dito contro il ministro della Difesa Shoigu, il capo di stato maggiore Gerasimov e i loro generali. Quando era di buon umore li definiva inetti e vigliacchi, nei giorni no li chiamava traditori. Fino ad accusarli di non fornire munizioni ai suoi mercenari impegnati nella battaglia di Bakhmut e, nelle ore precedenti l’abbozzo di marcia su Mosca, di aver bombardato una delle basi Wagner. Per un po’, complici anche i modesti risultati sul campo, Putin l’aveva placato rimuovendo o trasferendo alcuni generali. Poi, però, anche lo Zar aveva dovuto scegliere. E che per il Gruppo Wagner stessero arrivando tempi difficili lo si è capito quando Shoigu ha proposto, e Putin ha firmato, la legge che impone agli eserciti «privati» di sottoscrivere un contratto con l’esercito. Ramzan Kadyrov, il leader ceceno che per un po’ aveva accompagnato Prigozhin nelle sue intemerate, si è rimesso in riga e il battaglione ceceno Akhmat ha accettato il nuovo patto. Prigozhin, come abbiamo visto, no.

Dal punto di vista militare le cose sono andate come dovevano andare e come andarono sia nel 1991 (contro Gorbaciov) e nel 1993 (contro Eltsin). È chiaro che le truppe regolari russe hanno avuto ordine di non sparare sugli insorti, per almeno due ragioni: per non rischiare una guerra civile e, anche, perché non era sicuro che l’avrebbero fatto, soprattutto i reparti che con i Wagner avevano combattuto. Però il Cremlino non si sarebbe mai umiliato lasciando entrare i Wagner a Mosca. Prigozhin ha fermato i suoi perché sapeva che di lì a pochi chilometri avrebbe avuto sulla testa i cacciabombardieri e i suoi mezzi, allineati come birilli sull’autostrada, non avrebbero avuto scampo. Perché abbia tentato la mission impossible, per di più in un momento in cui la Russia sta resistendo bene (e senza i suoi uomini, da un mese e mezzo in retrovia) all’offensiva ucraina, resta da capire.

Pare però chiaro che da questa crisi, fulminea ma profonda, Putin esce indebolito, per una lunga serie di ragioni. Intanto, bisognerà vedere che accadrà al Gruppo Wagner, che è stato finora, ed è tuttora, un attrezzo prezioso della politica estera del Cremlino, per esempio in Africa. Ma anche che accadrà al ministro Shoigu, che di questo pasticcio è almeno corresponsabile. Nel suo esilio, pare in Bielorussia, Prigozhin non dormirà sonni tranquilli, Putin non ama gli (ex) amici che cambiano bandiera. Ma anche il ministro, sulla scena fin dai tempi di Eltsin, farebbe bene a contemplare, tra qualche tempo, un’onesta lettera di dimissioni. Più in generale, è chiaro che certi equilibri, al vertice del sistema di potere putiniano, sono saltati o vengono ridiscussi, e che il nuovo equilibrio ancora non è stato trovato.

Per un Presidente che ha fatto della stabilità interna (economica, sociale, politica) un dogma, non è una bella notizia. Soprattutto con una guerra in corso e con un’elezione presidenziale alle porte.

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