Innovazione e lavoro, non perdere il treno

ITALIA. È auspicabile che sul futuro dell’intelligenza artificiale (I.A.) e sulle sue ricadute sul mondo del lavoro si continui a riflettere e a discutere nell’arena pubblica.

Da un confronto il più possibile franco e informato potranno infatti emergere idee di cui fare tesoro come società e scenari rispetto ai quali saggiare le capacità di adattamento del nostro sistema-Paese. Si continui a dibattere, dunque, a condizione però di non rimanere intrappolati nel solito scontro fra apocalittici e tecno-ottimisti, troppo presi dalla battaglia sul numero di posti di lavoro che - da qui a dieci o vent’anni - saranno distrutti (o, secondo altri, creati) dalle nuove tecnologie. Intanto perché questo genere di previsioni è tutt’altro che una scienza esatta, e soprattutto perché arrovellarci attorno alla «quantità» di lavoro che sopravviverà in futuro alla rivoluzione dell’I.A. rischia di distogliere l’attenzione dai cambiamenti della «qualità» del lavoro che stanno già avvenendo, qui ed ora.

Dalla digitalizzazione alla robotica, dal cloud computing all’I.A., tutti i processi di profonda trasformazione tecnologica - che di recente sono purtroppo spesso originati all’esterno dei confini europei – attecchiscono e crescono nelle diverse economie del Vecchio continente con velocità diverse, soprattutto in base al tipo di «capitale umano» che caratterizza i mondi dell’imprenditoria e del lavoro. È quanto confermato tra l’altro da un rapporto appena pubblicato dal Centro studi dei Consulenti del Lavoro. L’Italia, che in termini di produttività ancora paga il fatto di aver indugiato troppo nell’abbracciare la rivoluzione ICT negli anni Novanta, oggi rischia di accumulare un nuovo ritardo sul fronte dell’IA. Lo scorso anno, ricordano infatti gli autori dello studio, il nostro Paese si posizionava all’ultimo posto in Europa per livello di «digitalizzazione» del proprio capitale umano (Digital Economy and Society Index). Soltanto il 45,6% della popolazione in età lavorativa è in possesso di competenze digitali basilari, contro il 53,9% della media europea; «bassa» anche la «presenza di figure specialistiche in ambito ICT (in Italia sono il 3,9% degli occupati contro una media europea del 4,6%)», «minore» inoltre «l’orientamento alla formazione, continua e di base in ambito digitale (solo il 19,3% delle imprese con più di 10 addetti offre formazione specifica ai propri collaboratori, contro una media europea del 22,4%)». Ma su tutti, l’aspetto che «appare più critico, soprattutto in prospettiva futura», secondo la ricerca presentata al Festival del Lavoro, è «la scarsa offerta di competenze di tipo tecnologico presente nel Paese». A fronte di una media di quasi 30 laureati in materie Stem (sigla che in Italiano sta per Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) ogni 1.000 ragazzi tra i 20 1 i 29 anni in Francia, di 24 in Germania e di 23,4 in Spagna, in Italia nel 2021 il valore era del 18,3, quasi 4 punti inferiore alla media europea di 21,9.

Conclusione: «La scarsità di competenze sia specialistiche sia trasversali, necessarie alla transizione digitale e tecnologica, ha un riflesso immediato sugli stessi processi di innovazione che interessano il tessuto delle imprese». Se gli autori dello studio parlano di «riflesso immediato» è perché già oggi le competenze digitali sono «imprescindibili per due assunzioni su tre». In Lombardia, per esempio, le assunzioni per cui attualmente sono richieste competenze informatiche e matematiche sono il 53,7% del totale, la quota più alta di tutto il Paese, per le competenze digitali si arriva al 67,9%. Dai tecnici programmatori agli analisti di software, dai progettisti di sistemi agli ingegneri elettrotecnici, queste sono soltanto alcune delle professionalità che già ora le aziende fanno maggiore fatica ad assumere. Per avvantaggiarsi di una nuova rivoluzione tecnologica, e non invece subirla, bisogna partire da qui: dalla conoscenza e dalle competenze, quindi dalle persone.

© RIPRODUZIONE RISERVATA