I problemi diventino opportunità per il lavoro

ITALIA. Gli ultimi dati sull’occupazione hanno fatto segnare un nuovo record. Il tasso di riferimento è ora in Italia pari al 62,1%, ovvero 23,85 milioni di persone occupate.

Certo, siamo ancora lontani dalla media europea (ben superiore al 70%) e sono davvero enormi le differenze di genere e territoriali: sia tra uomini e donne, sia tra Nord e Sud le distanze sono incredibilmente ampie, nell’intorno dei 20 punti percentuali. La crescita dei tassi di occupazione è giustamente salutata dal Governo come un fatto positivo e rappresenta la polizza assicurativa presente e futura per la tenuta del Prodotto interno lordo e quella dei conti pubblici. Resta, tuttavia, una considerazione di fondo che, i dati in sé e per sé, non rivelano. Cerchiamo di capire meglio.

La crescita dell’occupazione conseguita dall’Italia negli ultimi due anni è legata in gran parte alle persone over 50. Le strette previdenziali introdotte con le ultime leggi finanziarie, unite alle massicce uscite degli anni passati grazie a «quota 100 e dintorni», nonché la chiara indicazione del Governo circa il cambio di registro sul reddito di cittadinanza, hanno prodotto i loro effetti.

Bene, dunque, per il presente ma non anche per il futuro, quando la demografia comincerà a restringere ogni anno, ceteris paribus, la popolazione in età lavorativa. La domanda è: come possiamo fare, all’interno di questo trend, per evitare un calo della ricchezza prodotta e garantire una riduzione (o anche solo la non crescita) del debito pubblico, come richiesto peraltro dal Patto di Stabilità approvato pochi giorni fa dal Parlamento Europeo?

La risposta migratoria appare insufficiente. Le proiezioni dell’Istat e di altri centri di ricerca portano comunque, malgrado l’apporto dei «nuovi italiani», a una riduzione della popolazione nell’ordine dei 4-5 milioni nei prossimi 25 anni, contestuale alla crescita (oltre il 30% del totale) degli over 65. E, da ultimo, la riduzione della forza lavoro della stessa entità.

Due sono le strade possibili per controbilanciare questi fenomeni sostanzialmente certi: aumentare la produttività del lavoro e allungare ulteriormente l’età di pensionamento.

Sulla prima possibilità, l’Italia non sembra messa bene: la produttività del lavoro, per vari motivi, è il nostro tallone di Achille. Siamo fermi quasi a inizio secolo mentre Germania e Francia, dal 2000 a oggi, sono cresciute rispettivamente del 24 e del 15% a fronte dell’1,6% italiano. Difficile invertire la rotta in modo significativo nel prossimo futuro, malgrado l’apporto delle nuove tecnologie.

Sulla seconda possibilità, è facile immaginare le resistenze sindacali e non solo, del tutto giustificate. Che fare dunque in alternativa alla rassegnazione? Cerchiamo di vedere le cose in modo opposto. Non pensiamo per un istante all’età di pensionamento ma, al contrario, a come allungare la vita lavorativa, cioè proviamo a chiederci a quali condizioni siamo disposti a lavorare più a lungo. Tutto ciò passa per un lavoro diverso, che cambia con l’età, che riduce mansioni, fatiche e ore con l’età che avanza. La conseguenza è anche una ridefinizione del concetto di «lavoro usurante». È certamente usurante il lavoro fisico e/o in condizioni ambientali particolari. Ma, con il passare degli anni, diventa usurante anche il lavoro che, anche se considerato poco usurante, comporta tutti i giorni spostamenti casa-lavoro in mezzo al traffico o in autostrada, rigidità d’orario e altro ancora.

Ad esempio, se vogliamo allungare la vita lavorativa dobbiamo preoccuparci costantemente dello stato di salute delle persone, e questo oggi non si fa con tutti i mezzi disponibili. Occorre, in altre parole, un cambio culturale che purtroppo fatica ad affermarsi. Basti pensare, a titolo di esempio, che le Università non distinguono i doveri di un trentenne da quelli di un quasi settantenne. Guardiamo allora i problemi con occhi diversi e cerchiamo di trasformarli in opportunità di cambiamento e di miglioramento della società.

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