Lombardia alla sfida attrattività. «Aprite le fabbriche ai ragazzi»

DELTA INDEX. La regione con livelli record di occupazione fatica ad assumere nella fascia tra i 15 e i 29 anni. Guidesi, assessore allo Sviluppo economico, si rivolge agli imprenditori: «Fateli innamorare del vostro lavoro».

Trovare un giovane da inserire in azienda in Lombardia sta diventando complicato, è come cercare l’ago in un pagliaio. Il contesto occupazionale della regione è talmente saturo che in alcune province - come in Bergamasca - si è scesi sotto la soglia fisiologica del 3 per cento di disoccupati. La selezione di under 25 si è quindi trasformata in una caccia senza frontiere. D’altronde, secondo gli ultimi dati di Polis e Unioncamere Lombardia dell’ultimo trimestre a disposizione (il quarto del 2023), gli occupati in Lombardia sono aumentati dell’1,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e l’occupazione nella nostra regione cresce per l’11° trimestre consecutivo, facendo ridurre al 3,8% il tasso di disoccupazione regionale. Non solo, il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni supera per la prima volta il 70% (70,2%), otto punti sopra la media nazionale. Restando però sul nostro focus giovanile della fascia 15-29 anni, i dati sono in chiaro scuro: emerge un divario ancora negativo di disoccupati del 9,6% e contemporaneamente si registra una crescita: +29mila occupati, pari al +2,8%. Ma quel 9,6% di disoccupati giovani non è confrontabile con il 22,1% del resto d’Italia (più del doppio della media Ue che si assesta sull’11,2%). Ci troviamo dunque in un contesto occupazionale di privilegio rispetto al resto d’Italia, ciò obbliga le aziende lombarde a sforzi maggiori nella capacità di attrazione di nuove figure professionali, soprattutto tra le nuove generazioni. Ne parliamo con Guido Guidesi, assessore regionale allo Sviluppo economico di Regione Lombardia.

Tanti posti di lavoro, eppure le aziende faticano a trovare giovani da assumere. Cosa si può fare per accendere la miccia che inneschi un nuovo processo attrattivo?

«Bisogna continuare a innovare, a investire, a ingegnarsi. Oggi si utilizzano sistemi, diciamo così, ordinari: percorsi formativi, si va nelle scuole. Metodi ordinari che funzionano, ma io sono convinto che dobbiamo cercare di incidere dal punto di vista dell’appetibilità sulla nuova generazione».

C’è uno spazio di conoscenza da compensare da parte dei giovani o da parte delle aziende?

«Ai giovani manca la conoscenza delle opportunità e alle aziende la non comprensione dell’importanza della narrazione perché vengano attenzionate dai giovani. C’è uno spazio che dobbiamo capire come riempire».

Non crede che le aziende - quando va bene, peché spesso nemmeno comunicano - abbiano un metodo di narrazione un po’ datato?

«Girando la Lombardia abbiamo trovato esempi di giovani artigiani che fanno mestieri antichi in maniera estremamente innovativa e hanno una capacità comunicativa che rende quel tipo di mestiere affascinante persino ai più giovani. E la Regione sta incentivando le imprese proprio su questo aspetto, cioè sul saper coinvolgere i giovani. Non solo andare a cercarli per accaparrarseli».

Lei cosa dice agli imprenditori quando li incontra sul territorio?

«Suggerisco di aprire le fabbriche ai ragazzi. Andare in cattedra a scuola è uscire dal proprio campo d’azione, invece portarli in azienda significa affascinarli con il proprio lavoro e magari farli innamorare facendo emergere una vocazione inespressa».

A volte sembra che le aziende non sappiano trasmettere ai giovani il valore della loro attività.

«È così e le faccio un esempio lampante: noi siamo leader al mondo nel motorismo storico. I collezionisti di auto d’epoca vengono in Lombardia per essere certi che la manutenzione sia a regola d’arte. Ma è mai possibile che su una tradizione così incredibile non si riesca a far cogliere ai giovani questa opportunità professionale ed economica? Dobbiamo raccontargli quel mondo lì, ma se non gli facciamo vedere le auto d’epoca e il mondo che sta intorno, come l’Autodromo, i giovani non si appassioneranno mai a questo lavoro».

È un esempio emblematico, ma si sta facendo tutto il possibile per avvicinare i giovani?

«La risposta, francamente, a volte è no. Non basta presentare a un giovane un corso di formazione. Gli devi dire anche se quel percorso potrebbe avere uno sbocco lavorativo in un settore preciso o nelle aziende di un certo territorio. Dobbiamo presentargli il “pacchetto completo” perché possano giocarsi la sfida della vita secondo le sue aspirazioni».

Il famoso modello Lombardia traballa e rischia di perdere colpi sull’attrattività delle nuove generazioni?

«Alcuni imprenditori stanno iniziando a gestire il problema in modo adeguato, altri ancora non lo fanno. È importante e fondamentale cogliere le innovazioni. E pure la comunicazione. Lo stipendio è importantissimo ma non fa più la differenza. Lo fa, ad esempio, il welfare. Sono tanti gli imprenditori con una contrattazione di secondo livello per i lavoratori e anche per le loro famiglie. Non lo raccontiamo perché siamo abituati a darlo per scontato».

Gli imprenditori si lamentano perché i giovani cambiano spesso lavoro. Non servirebbe anche un’alleanza territoriale per trattenerli?

«C’è ancora tanto da fare da questo punto di vista. Dobbiamo essere in grado di avere un sistema di coordinamento tra noi, associazioni di categoria, “filiera dell’istruzione”, centri per l’impiego. Ognuno deve fare un passo indietro su questa cosa, per farne dieci in avanti, tutti insieme. Dobbiamo dare la possibilità a un ragazzo che è nato su un territorio di poter continuare a giocarsi la propria sfida sul quel territorio».

E vogliamo dire alle aziende, una volta per tutte, che questi giovani non sono lazzaroni?

«Io sono convinto che le aziende lo sappiano già. Lo dico sinceramente, non da assessore alle aziende. Poi le nuove generazioni hanno limiti e pregi. Come tutte le generazioni. Noi però abbiamo visto che i giovani sono impressionanti, sono di una capacità di innovazione incredibile. La nostra scommessa è quella di connettere questi giovani con le aziende».

A volte però ci sono troppi muri...

«Qualche volta la mancata comunicazione direzionale verso i giovani da parte delle aziende, altre volte la scuola. Sono muri che dobbiamo cercare di abbattere insieme a beneficio di tutti. Ma guardi, io sono molto ottimista su questa cosa, c’è la faremo».

Cosa glielo fa credere così convintamente?

«Visito aziende tutte le settimane. Giro nei reparti, dalla produzione alla progettazione, dai laboratori di ricerca agli uffici commerciali internazionali. E vedo un’età media bassa, vedo tantissimi ragazzi di quel territorio che hanno deciso di andare a lavorare nelle aziende vicine a casa. Lo hanno fatto non solo per l’opportunità ma perché riconoscono in quell’azienda un protagonismo nella comunità».

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